La saggezza ermetica e l’Intelletto universale
[Tratto da Titus Burckhardt, ALCHIMIA – Significato e visione del mondo]
La visione ermetica delle cose si fonda sull’analogia fra l’universo – il macrocosmo – e l’uomo – il microcosmo – : analogia il cui asse o la cui chiave di volta è lo Spirito o Intelletto universale, prima emanazione dell’Uno assoluto.
L’universo e l’uomo si rispecchiano l’uno nell’altro: tutto ciò si trova nel primo deve necessariamente trovarsi, in un modo o nell’altro, anche nel secondo. Tale corrispondenza potrà essere meglio intuita riconducendola, anche se in via del tutto provvisoria, alla relazione soggetto-oggetto, conoscente-conosciuto: il mondo, in quanto oggetto, si riflette a tal punto nello specchio del soggetto umano che non ci sarebbe possibile percepirlo al di fuori di quest’ultimo.
Mentre il soggetto, lo specchio, esiste solo per quello che vi si riflette. Queste due polarità possono anche essere distinte, ma in nessun caso separate. Empiricamente, il soggetto si identifica con l’Io; e poiché questo si identifica a sua volta con il corpo, ecco che il soggetto ci potrà apparire non soltanto frantumato nelle prospettive individuali e variegato dalla diversa presenza dei sentimenti, ma anche, come indica la parola stessa, «sottomesso» al mondo oggettivo. Si tratta in realtà di una nostra di illusione ottica: se il soggetto, in quanto polarità interiore della conoscenza, non fosse che questo, cioè un puro centro di sensibilità individuale legato alle vicende de1 corpo e sottomesso alle sue leggi, non sarebbe evidentemente « all’altezza » del suo oggetto; la conoscenza oggettiva del mondo sarebbe impossibile, non esisterebbe anzi nessun livello possibile di conoscenza. Certo, la nostra conoscenza del mondo è frammentaria: non coglie gli oggetti che parzialmente, e rimane necessariamente indiretta non riuscendo a superare, in se stessa, la dualità oggetto-soggetto.
Ma questo non significa che sia meno adeguata: è comunque conoscenza e, in quanto tale, si iscrive in quella Verità universale senza la quale la nostra esperienza del mondo si ridurrebbe a un sogno evanescente e assurdo (ammesso poi che sia possibile la definizione di qualcosa in assenza di un autentico criterio di certezza); non vi sarebbe nessuna possibile coincidenza, né fra le cose e il nostro spirito, né fra i diversi « mondi » che corrispondono ai diversi soggetti.
L’universo è costituito da una serie indefinita di soggetti posti a confronto con una serie altrettanto indefinita di oggetti, in un sistema di assoluta continuità: la sfera oggettiva che corrisponde a questo o a quel soggetto particolare si inserisce senza fratture nell’insieme delle realtà soggettive e oggettive – avendo ogni soggetto, secondo i modi che gli sono propri, una visione globale e adeguata del mondo. Tutti i soggetti individuali, infatti, non sono che polarizzazioni più o meno dirette o indirette (del solo soggetto universale: lo Spirito o Intelletto).
Occorre quindi considerare un nuovo campo di analogie: poiché l’uomo rappresenta, nell’ordine terreno, il supporto più perfetto dello Spirito universale, o il suo più diretto luogo di attualizzazione, possiamo considerarlo – in linea di principio, se non di fatto – come la sintesi o la « risultanza » di questo essere macrocosmico costituito a sua volta dalla serie indefinita delle polarizzazioni dello Spirito unico. In questo senso, molti autori ermetici della tradizione araba hanno ritenuto di poter scrivere: « L’universo è un grande uomo e l’uomo è l’universo in piccolo ». È quindi evidente che l’Intelletto universale trascende le facoltà psichiche e mentali. Conviene comunque precisare che tale essenzialità gli è propria sempre e dappertutto, anche là dove si manifesta attraverso facoltà o coscienze più o meno limitate o più o meno opache: così come una luce pura riflessa da vetri colorati continua, in se stessa, a essere incolore. In assenza dell’Intelletto, nessuna forma mentale sarebbe in grado di contenere un benché minimo elemento di verità. La dottrina ermetica dell’Intelletto universale coincide, insomma, con quella tramandataci dai Platonici in un linguaggio sostanzialmente analogo. Come insegna Ermete Trismegisto, « l’Intelletto (nous) deriva dalla Sostanza (ousia) di Dio, nei limiti in cui sia possibile attribuire a Dio una sostanza; soltanto Dio conosce in che consiste la natura di tale sostanza. L’Intelletto non è una parte della sostanza divina; ne è piuttosto l’irradiazione, come un raggio di luce che scaturisce dal sole. Nell’uomo, questo Intelletto è Dio … ». L’immagine non potrebbe essere più chiara. La luce scaturisce dal sole senza che questo ne abbia ad essere diminuito; nello stesso modo, l’Intelletto procede dalla sostanza divina senza che questa ne venga a perdere nelle sue manifestazioni in sovranità e trascendenza. Ma di più: come la luce del sole affida tutta la propria realtà al sole stesso, e a tal punto che non ci è più dire quale sia l’una e quale sia l’altro, così l’Intelletto diventa in qualche modo Dio – nell’uomo, cioè nel suo specchio cosmico più perfetto, è Dio.
Anche se l’Intelletto si mantiene intrinsecamente identico dappertutto, non manca tuttavia di dare origine, estrinsecamente, a una gerarchia di entità , al cui primo posto è l’Anima universale (psyché) e all’ultimo la materia. Nell’uomo – al cui livello il più alto e il più interiore coincidono – il corpo sembra contenere l’anima, a sua volta abitata da un intelletto che è portatore del Verbo Divino o Logos. È in questi precisi termini che ne parla Ermete Trismegisto nel libro già citato, là dove fra l’altro definisce Dio come «Il Padre di Tutto».
Le analogie fra questa dottrina e la teologia giovannea sono abbastanza evidenti, ed è comprensibile che non pochi padri della Chiesa, per esempio Alberto Magno, abbiano potuto vedere nel Corpus Hermeticum il « seme » precristiano della dottrina del Logos. Per chi sa leggere, la dottrina dell’unità trascendente dell’Intelletto è già tutta presente nel prologo ne1 Vangelo secondo Giovanni, e implicitamente affermata in tutte le rivelazioni della Sacra Scrittura, anche se il suo carattere esoterico resta necessariamente confermato dall’impossibilità di cogliere tale unità per mezzo dell’immaginazione o della stessa ragione, in quanto tale unità è la premessa e non l’oggetto della logica. Vedere nell’unità dello Spirito o Intelletto una sorta di continuità sostanziale – e per cosi dire materiale – in grado di dissolvere le distinzioni invece inerenti all’esistenza, a partire dalla distinzione evidentemente incommensurabile fra creato e increato, porterebbe inevitabilmente a gravissimi errori. La natura universale dello Spirito gli permette di essere totalmente presente in ogni creatura, ma senza annullarne l’essenza che è quella di una forma limitata e distinta non solo in rapporto alle altre creature, ma anche in rapporto allo Spirito stesso, da cui infinita è la distanza. Non dimenticando inoltre che l’anima (la psyché) è a sua volta una forma e che questa forma continua a esistere anche dopo la morte del corpo: tesi, questa, che l’averroismo – per eccesso di aristotelismo – non ha saputo conciliare con quella dello Spirito unico.
L’Intelletto, distinguendosi da tutti gli oggetti o almeno sottraendosi a qualsiasi possibile oggettivazione, è il « soggetto assoluto». È quindi il «testimone » più interiore e situato, nella nostra anima, di gran lunga al di là di tutto ciò che può ancora essere oggetto di conoscenza; si identifica, al fondo del nostro essere, con « l’Occhio divino». Ne troviamo allusione anche in quel testo ermetico della tradizione siriaca che contiene l’immagine dello specchio segreto cui si può accedere solo dopo aver oltrepassato sette porte, a loro volta corrispondenti alle sette sfere planetarie, gradi o « strati » dell’anima universale. « Era uno specchio fatto in modo tale », dice il testo in questione, «che nessun uomo vi si poteva vedere materialmente, poiché nel momento stesso in cui si distoglieva dallo specchio per rivolgersi alla molteplicità, perdeva la memoria della propria immagine (essenziale). Lo specchio rappresenta lo Spirito divino. Quando l’anima vi si rimira, scopre la colpa che è in lei e si affretta a rifuggirla […l. Una volta purificata, l’anima imita lo Spirito Santo e lo prende a proprio modello; diventata a sua volta spirito, riconquista la pace e si riaffida a quello stadio superiore in cui lo si conosce (Dio) e da Lui si è conosciuti. Ormai senza ombra, si può distaccare dai vincoli che le sono propri come da quelli che l’accomunano al corpo […]. Come dice la parola dei Filosofi? – Conosci te stesso! Con questo si vuol riferire allo specchio spirituale e intellettuale. Ma che cos’è questo specchio, se non il divino Spirito originale? Non appena l’uomo vi si contempla, non può fare a meno di distogliersi da tutto ciò che ha ancora a che fare con dei e con demoni, e si congiunge allo Spirito Santo per farsi uomo perfetto. Vede Dio in se stesso […l. Lo specchio è posto al di sopra delle sette porte che corrispondono ai sette cieli, al di sopra del mondo sensibile, al di sopra delle dodici case (celesti). Al di sopra di tutto, si trova quest’occhio dei sensi invisibili, quest’occhio dello Spirito sempre e dappertutto presente. E là possiamo contemplare questo Spirito perfetto che contiene in potenza tutte le cose … ».
Non essendo l’Intelletto che la polarità conoscitiva dell’esistenza universale – non essendo in sé l’oggetto di un’esperienza ma la premessa e il fondamento di ogni possibile esperienza – la conoscenza che ne possiamo avere non modifica la nostra esperienza del mondo, almeno non nella sfera dei fatti, ma determina piuttosto l’assimilazione interiore di questa esperienza. Per la scienza moderna, le « verità » ( o leggi generali) – in assenza delle quali saremmo inghiottiti dalla sola esperienza come dalle sabbie mobili – si riducono alle descrizioni o schematizzazioni delle apparenze, astrazioni utili quanto assolutamente provvisorie. Per la scienza tradizionale, invece, è essenzialmente verità l’espressione o la « condensazione », in forma accessibile alla ragione, di una possibilità già presente a priori nell’Intelletto universale. Tutto ciò che appare, in modo più o meno effimero, nell’esistenza, ha il proprio modello o archetipo appunto nell’Intelletto universale. Mentre l’Intelletto coglie le possibilità nella loro primitiva immutabilità , la ragione non ne afferra che le ombre o i simboli. Platone chiama idee o archetipi tali immutabili possibilità: conviene rispettare il significato più autentico di queste espressioni ed evitare di applicarle a semplici generalizzazioni – tutt’al più, riflessi delle vere idee – o a quella sfera esclusivamente psichica che si è convenuto di chiamare inconscio collettivo. Quest’ultima accezione è particolarmente incongrua e scorretta, in quanto sembra presupporre una identificazione fra indivisibilità dell’Intelletto e impenetrabilità del fondo più passivo e oscuro dell’anima. Non è al di sotto ma al di sopra del piano razionale che si situano gli archetipi: il che spiega fra l’altro perché mai tutto ciò che la ragione ne può cogliere non sia che un aspetto necessariamente limitato della loro più autentica realtà. Soltanto l’unione dell’anima con lo Spirito – o, per meglio dire, il suo ritorno all’unità indivisibile dello Spirito – può dare origine nella coscienza dell’uomo a una sorta di improvvisa rivelazione delle possibilità eterne presenti nell’Intelletto o Spirito: possibilità che si « condensano» spontaneamente sotto forma di simboli.
Nel libro del Corpus Hermeticum conosciuto sotto il titolo di « Pimandro », apprendiamo in che modo l’Intelletto universale si riveli a Ermete-Thoth: « Cosi dicendo, Egli mi fissò in volto a lungo, a tal punto da farmi tremare sotto il suo sguardo. Poi, non appena risollevò la testa, vidi come nel mio stesso spirito (nous) la luce di incalcolabili possibilità si trasformasse in un Tutto infinito, mentre il fuoco, circoscritto e come trattenuto all’interno da una forza onnipotente, perveniva al suo stato di immobilità . Questo è quanto ho potuto trattenere razionalmente di tale visione [ . . . ]. Quando fui del tutto fuori di me, Egli parlò di nuovo: “Tu hai potuto vedere nell’intelletto (nous) il prototipo, l’origine anteriore a qualsiasi inizio senza fine” … ». Una cosa o un pensiero assurge a simbolo là dove rifletta, a livello fisico o psichico, il proprio archetipo o essenza immutabile. Se è vero che il pensiero astratto è in grado di meglio sottolineare la distanza che separa il simbolo dal suo archetipo, è altrettanto vero che l’immaginazione si presta più compiutamente a riflettere quest’ultimo, poiché l’immagine è sempre più complessa di una nozione astratta e offre un numero evidentemente superiore di possibilità interpretative. Inoltre, pur essendo vero simbolo, essa si fonda sulla reciproca corrispondenza che esiste fra la sfera spirituale e la sfera corporea, conformandosi così alla legge che dice, secondo le parole che possiamo leggere sulla Tavola Smeraldina, che « il più basso è simile in tutto al più alto».
Là dove l’intelletto umano, grazie all’unione più o meno completa con l’Intelletto universale, riesce a distogliersi dalla molteplicità delle cose per ascendere all’unità indivisibile, la conoscenza della natura che un uomo è in grado di acquisire a partire da tale visione non resterà più limitata ai puri e semplici fatti sensoriali (questi ultimi, poi, si manterranno ancora e sempre quali sono) – il mondo è ormai diventato trasparente all’uomo: questi vede nelle sue apparenze il riflesso degli archetipi eterni. E anche quando questa intuizione non è immediatamente presente, i simboli che ne scaturiscono ne risvegliano comunque il ricordo o la « reminiscenza ». Questa è la visione ermetica della natura. In tale prospettiva, le cose acquistano importanza non tanto per la loro natura misurabile e quantificabile, cioè per il loro essere determinate da cause e circostanze temporali, quanto per le loro qualità essenziali: quelle stesse che possiamo immaginare come fili verticali (fili di un ordito) di una tessitura, immagine del mondo. Ma sono poi i fili orizzontali (la trama), inseriti in modo alterno dalla spola, a fare di quella tessitura un tessuto uniforme e compatto. I fili verticali sono i contenuti immutabili, o le essenze delle cose, mentre i fili orizzontali ne rappresentano la natura materiale e sottomessa la tempo, allo spazio e ad altre analoghe condizioni.
[Immagine: La dama e l’unicorno di Luca Longhi, 1535-40. Probabile ritratto di Giulia Farnese.]