Il Nodo del Cuore nelle Upanishad
[di Stephen Cross, Temenos Academy Review 12 (2009), traduzione e adattamento Beatrice Polidori]
Infatti, colui che conosce il Brahman Supremo diventa Brahman stesso
. . . Liberato dai nodi del luogo segreto, diventa immortale (Mundaka Upanishad)
La parola Brahman è legata al verbo sanscrito brh, che significa “espandersi, crescere, estendere” e trasmette l’idea dell’immensità che contiene tutto, oppure della ‘Vastità’. È quindi un concetto molto più impersonale rispetto al termine occidentale ‘Dio’ ed è meglio tradotto da espressioni come “Realtà suprema”, “La Divinità”, ‘Il Pervasivo’, o ‘la Vastità’. Shankara, che è considerato come il principale commentatore dei testi della tradizione Hindu e probabilmente il suo pensatore più influente, descrive Brahman come senza forma e onnipervadente, senza nascita, privo di ogni modificazione o cambiamento, costante, privo di paura e ‘residente nei cuori di tutti’.
Questa “Vastità” onnicomprensiva, secondo il pensiero Upanishadico, è ciò che è reale, vale a dire, spiega Shankara, “l’essenza di questa esistenza fenomenica, la fonte da cui scaturisce ” e quello in cui di nuovo si dissolve. Tutto ciò che prende forma appare in questo Brahman o Vastità, e così il mondo fisico, l’intero universo, e anche i mondi interiori ‘sottili’ o psichici della mente sono tutti solo relativamente reali. Sia il mondo esterno che il mondo interiore delle emozioni e dei pensieri cambiano. E tutto ciò che cambia, Shankara sostiene (come naturalmente molti filosofi occidentali), non è vero e in definitiva non è reale, sebbene possa avere una realtà relativa. È solo un aspetto che sorge nella coscienza, esiste per un certo intervallo di tempo e poi scompare. Se qualcosa è completamente reale, definitivamente e assolutamente reale, non può cambiare. Quindi il ‘Supremo Brahman’ (paramam brahma) di cui parla il versetto della Mundaka Upanishad è la Realtà ultima, immutabile.
Shankara e l’Advaita, o la tradizione “non duale” dell’interpretazione upanishadica a cui appartiene, andarono oltre questo. Questa Realtà suprema, Brahman che è “Immutabile. . . superiore alla percezione” e tuttavia” residente nei cuori di tutti”, è la consapevolezza. Si tratta della nostra coscienza o consapevolezza, in cui compaiono tutte le percezioni, i concetti e le emozioni. Questa affermazione è in piena conformità con uno dei quattro Mahavakya o ‘Grandi Proverbi’ delle Upanishad, che sono i capisaldi su cui poggia il pensiero Hindu: prajñanam brahma “La coscienza è Brahman”.
Nel suo commento al Mundaka Upanishad Shankara scrive che i diversi tipi di creature appaiono individuati e sono diversificati dai diversi corpi sottili e fisici che sono i loro upadhi o “aggiunte limitanti”, che si sono formati come risultato di attività passate o karman.
I corpi – sia “sottili” (cioè mentali) che fisici – degli esseri viventi, sembrano dividere la coscienza, Shankara continua a spiegare, allo stesso modo in cui dei vasi di terracotta di diverse forme e dimensioni sembrano dividere lo spazio in molti spazi piccoli e distinti. Quando i vasi vengono eliminati, nuovamente lo spazio riprende il carattere indiviso e omogeneo che in realtà non aveva mai persduto. Così avviene con la coscienza. Con lo scioglimento finale della natura individuale – e questo non significa con la morte, come vedremo più tardi – la coscienza riprende il suo stato omogeneo e indiviso. Come lo spazio, nel caso dei vasi di terracotta, non aveva mai davvero perduto la sua interezza, ma appariva solo dal nostro punto di vista.
Alla luce di questo, possiamo cominciare a spiegare l’affermazione della Mundaka Upanishad: “colui che conosce il Supremo Brahman diventa lui stesso Brahman”. Brahman, la Vastità, l’onnipervasivo, la realtà, è la coscienza non condizionata, e non la coscienza come la sperimentiamo normalmente, apparentemente racchiusa nel corpo separato dell’individuo, ma coscienza in sé. Non coscienza ‘di’ qualche cosa, ma pura consapevolezza indifferenziata o coscienza.
Questo, l’Upanishad ci sta dicendo, è ciò che siamo veramente nel profondo, quale essenza e sé più essenziale. Ma non lo sappiamo. Anche se lo comprendiamo intellettualmente – e questo almeno è un inizio – noi non sperimentiamo e non lo consideriamo un fatto vivente, un’esperienza reale, e quindi non è per noi reale e vivente. Ma se arriviamo a conoscerlo nel suo vero e pieno senso, quindi, afferma l’Upanishad, noi siamo “Brahman”, anche qui in questo mondo. Ci rendiamo conto allora di essere e essere sempre stati la nostra coscienza di natura più essenziale, o pura consapevolezza; e che tutto il resto, tutto ciò che condiziona la coscienza, non è in ultima analisi, niente più che un fuggevole e mutevole aspetto che sorge nella mente: “Perché il mondo intero è una modifica della mente”, scrive Shankara; esso si fonde infatti con la mente nel sonno profondo e riemerge da esso di nuovo risvegliandosi, come le scintille dalla brace”.
Abbiamo già visto che ‘il luogo segreto’ è un sinonimo per il cuore. Sebbene la parola ‘cuore’ (hrdaya) non sia usata nel versetto, tutti i traduttori e i commentatori concordano sul fatto che questo è il significato sottinteso. Ci sono un certo numero di altre ricorrenze nelle Upanishad a proposito del ‘nodo del cuore’; per esempio in un versetto precedente del Mundaka Upanishad si dice: “Quando quel Sé. . . si realizza, il nodo del cuore (hrdaya-granthi) si scioglie; tutti i dubbi si risolvono e le proprie azioni (karman) si dissolvono”. E nella Katha Upanisad leggiamo: “Quando tutti i desideri che avvolgono il cuore cadono, allora un mortale diventa immortale e dunque ottiene il Brahman. Quando tutti i nodi del cuore sono sciolti, anche se un uomo è vivo, da mortale diventa immortale. Questa principalmente è l’istruzione (di tutte le Upanishad)” – cioè, questo è il nocciolo del loro messaggio, il loro insegnamento essenziale.
Quindi in questi casi il cuore fisico al centro del corpo è usato per simboleggiare qualcosa che è altrettanto centrale nella struttura psicologica degli esseri umani. In termini generali, con il cuore si intende per la nostra natura morale, e per il tipo di intenzioni che esercitiamo, quello che a volte chiamiamo “anima”, quello che sceglie tra il bene e il male e ci rende il tipo di persona che siamo . Le Upanishad usano il termine “cuore” o “il luogo segreto” allo stesso modo. Non è la mente a cui si fa riferimento, che in realtà è uno strumento del cuore, il suo mezzo di espressione. E non è certamente la coscienza o consapevolezza immutabile, il Sé o Atman che è la vera realtà negli uomini e nelle donne. Ciò che è indicato delle Upanishad dal “cuore” è, invece, l’essenza della nostra natura umana in quanto tale: il vaso di creta formato dalle “aggiunte limitanti” (upadhi) che racchiudono e restringono (almeno in apparenza) la luce della coscienza, che è al centro della nostra esistenza.
Collegata strettamente con questa, è una delle idee più importanti in quella che potremmo chiamare la teoria psicologica indiana. Il concetto di Buddhi. Buddhi viene solitamente tradotto come “mente superiore”, in opposizione al manas, alla “mente inferiore”. Manas è quella facoltà mentale che, sulla base delle impressioni sensoriali, percepisce e rappresenta il mondo esteriore, e quindi concepisce modi in cui ci si relaziona o si reagisce ad esso. È ciò che intendiamo di solito quando parliamo della mente come instabile, mutevole e difficile da controllare. La Buddhi, invece, è una facoltà diversa. È la Buddhi o “mente superiore” che discrimina e prende decisioni; che decide se agiamo egoisticamente o altruisticamente, crudelmente o gentilmente, a fare di noi che siamo “di buon cuore” o “dal cuore nero”. La Buddhi, secondo il pensiero indiano, è il più alto elemento nella natura individuale degli esseri umani, ma non è l’elemento più alto di tutti nella natura umana. Questo, come abbiamo già visto, è l’Atman o il Sè. È importante essere chiari sul fatto che il Sé, o la coscienza immutabile, non fa parte della natura individuale nella visione indiana. Lo trascende: è sovraindividuale, ed è proprio la nostra natura effimera ed individuale che ci impedisce di identificarci con il vero centro del nostro essere, l’Atman. Nonostante ciò, all’interno dei confini della natura individuale, la Buddhi è il fattore decisivo. Quando è “pura”, cioè non contaminata dalla mente inferiore e dalle paure e dai desideri che la controllano, la Buddhi sta, per così dire, sulla linea di demarcazione tra la nostra natura di limitati individui umani (jiva) e la nostra natura ultima e trascendente di pura coscienza o Atman. La Buddhi purificata, a volte, vede oltre questo confine, dall’altra parte, e coglie la nostra natura sovraindividuale, ed è questo il terreno comune che unisce i mistici di diverse tradizioni. La Buddhi o mente superiore, quindi , non è di per sé l’Atman, ma è l’elemento nella natura individuale che può avvicinarsi ad esso. Quando è pura e, per così dire, trasparente, funziona come la facoltà di intuizione spirituale che ci dà intuizioni della realtà sovrasensibile; era la Buddhi purificata a essere indicata dai filosofi dell’Europa medievale quando parlavano di “intelletto” e da Platone quando esaltava “la ragione”. Ma una Buddhi purificata è rara. Secondo l’insegnamento indiano, nella grande maggioranza delle persone la Buddhi non è purificata. Al contrario, è dispersa e guidata qui e là da quello che viene chiamato Samkalpa, ‘desiderio-immaginazione’, i desideri e le paure che determinano l’attività costante della mente. In questa condizione, la Buddhi ha perso la sua preminenza e tende a cadere sotto il controllo della mente inferiore (manas), delle paure e dei desideri che la eccitano. L’intero ordine interno è invertito, con il risultato che il potere del discernimento è corrotto e le nostre risorse ed energie disperse e spezzate. È una condizione rappresentata nei miti di molte culture: come la battaglia dei Titani contro gli Dei, o degli Asura contro i Deva, o nel Mahabharata, nel rovesciamento temporaneo dei Pandava ad opera dei loro cugini Kaurava.
La perdita del Paradiso è un altro modo per presentare questa condizione di “caduta” e disorientamento. In questo stato i nostri processi mentali sono, in misura maggiore o minore, disgregati. Ci muoviamo rapidamente da un desiderio o pensiero a un altro con poco controllo – come una scimmia, che in India viene spesso considerata una rappresentazione della condizione instabile in cui il Manas domina il potere della discriminazione o Buddhi. Uno scopo centrale delle discipline spirituali indiane, Buddista e Giainista come Hindu, è quello di correggere questo stato di cose e di liberare gradualmente la Buddhi dall’immaginazione-desiderio della mente inferiore in modo che non sia più dominata e tirata da una parte e dall’altra, ma sia in pieno controllo di sé e del Manas e in grado di usarlo liberamente come suo strumento. Solo allora, quando la Buddhi è purificata e al posto di comando, per così dire, incominciamo a realizzare la nostra vera natura; e solo allora, nella visione Upanishadica, siamo veramente ciò che dovrebbe essere un essere umano. Questo, quindi, è ciò che si intende con il termine “cuore”, o “il luogo segreto”, nei versi che abbiamo esaminato. Il “cuore” è la Bhuddi, il più alto elemento nella natura individuale degli uomini e delle donne, che, purificato e dominante la mente inferiore, apre la porta a quella coscienza pura e immutabile che è la nostra natura più intima e essenziale. Ora consideriamo i “nodi” a cui il verso che stiamo esplorando riferiscono: “Liberato dai nodi del luogo segreto (o del cuore)”, ci dice “diventa immortale”. Quindi sono i “nodi del cuore” che ostacolano il cammino. Non è solo questo verso del Mundaka Upanishad a dirlo, perché la stessa cosa si dice in altri testi. Nella Katha Upanishad si dice che: “Quando tutti i nodi del cuore (hrdayasya … granthayah) vengono distrutti, anche se un uomo è vivo, allora da mortale diventa immortale. Questo è il solo insegnamento.” E abbiamo anche visto che un altro versetto del Mundaka Upanishad afferma:” Quando quel Sé. . . si realizza, il nodo del cuore (hrdayagranthi) si slega; tutti i dubbi si risolvono e le proprie azioni (karmani) si dissolvono. “In un altro versetto del Mundaka Upanishad, che appartiene alla parte più antica del testo, si dice:” Colui che conosce questo Brahman supremamente immortale, come esistente nel cuore, distrugge qui il nodo dell’ignoranza (avidya-granthi)”. E in una delle Upanishad più antiche, la Chandogya Upanishad, possiamo già trovare la stessa dottrina: “Dalla purificazione dell’organo interno, ritorna il ricordo infallibile (dell’infinito). Dopo il ritorno dei ricordi, si sciolgono tutti i nodi del cuore”. Quindi è chiaro che il concetto dei “nodi del cuore”, o “nodo dell’ignoranza”, è un’idea consolidata e importante.
Quali sono, allora, questi “nodi”? Possiamo trovare la risposta se esaminiamo i commenti di Shankara ai versetti sopra menzionati. I nodi del cuore, ci dice, sono “concetti che sorgono dall’ignoranza, che si legano velocemente come nodi”. Il “nodo dell’ignoranza”, scrive in un altro luogo, è formato dalle “tendenze e impressioni create dall’ignoranza che sono difficili da sciogliere come nodi”. E ancora: “il nodo del cuore [è] il luogo di tendenze e impressioni frutto di ignoranza, che in forma di desideri attecchiscono all’intelletto (Buddhi)”. E commentando il passo citato sopra della Chandogya Upanishad dice che i “nodi esistenti nel cuore sono i legami. . . creati dall’ignoranza, che si sono rafforzati con le impressioni lasciate dalle esperienze in molte vite passate”.
Le parole sanscrite sono vasana e samskara; sono termini tecnici importanti che corrispondono a concezioni fondamentali del pensiero indiano e giocano una parte significativa nel suo sviluppo. La parola vasana significa un’impressione residua lasciata nella mente come risultato di attività passate; e il secondo, samskara, significa una predisposizione o “forza formativa” all’interno della mente, che viene gradualmente costruita come risultato di impressioni mentali accumulate o vasana. Sia le impressioni che le forze formative, ci dice Shankara, sono “create dall’ignoranza (avidya)” – e infatti abbiamo visto che in uno dei versi sopra il “nodo del cuore” è indicato come “il nodo dell’ignoranza” (avidya-granthi). Questa ignoranza, secondo Shankara, è la nostra ignoranza di noi stessi, della nostra natura, di chi e di ciò che realmente siamo. Consiste in un’identificazione profonda, ma sbagliata, con il sé empirico quotidiano – il sé individualizzato che è in continua evoluzione e quindi non può avere altro che una realtà apparente e temporanea – e nell’incapacità di realizzare (tranne forse in teoria, se siamo studenti del Vedanta) che dietro questo mutevole io o jiva quotidiano, c’è qualcosa di completamente libero da desideri, paure, difficoltà e ambizioni, un altro Sé, l’Atman o coscienza trascendente che è quindi interamente reale.
Le impressioni e le forze formative che giacciono profonde nella memoria dell’inconscio danno sostanza alla dottrina del Karman: sono la realtà del karman, la sostanza di cui è formato, i semi karmici accumulati nel corso della vita. Questo processo è pensato come un dato quasi fisico. La mente è considerata come dotata di due gradi o strati, il corpo sottile e il corpo causale. Entrambi sono considerati composti di materia di un tipo sottile e impercettibile, ed è questa materia sottile che riceve e conserva le impressioni generate dalle emozioni e dalla volontà. Il corpo sottile, costituito essenzialmente dalle forze formative (samskara), è considerato più resistente (e quindi in termini indiani più reale) del corpo fisico, dal quale si separa al momento della morte. Il corpo causale, che riceve e memorizza le impressioni (vasana) dalle quali, a tempo debito, sorgono le forze formative, è più duraturo e reale del primo. Ma anche questo non è del tutto reale. È solo l’Atman, la coscienza o la consapevolezza in cui si svolge l’intero processo, che gode di una realtà piena e duratura. Alla morte i corpi causali e sottili, che insieme racchiudono l’Atman come i vasi di creta che racchiudono lo spazio descritto in precedenza, non sono dissolti; permangono in uno stato latente. Successivamente, si determina una rinascita quando certe impressioni o “semi” iniziano a germogliare alla vita (a “vibrare”, come dicono i testi tantrici), e ad assumere caratteristiche formative definite (samskara). Secondo l’opinione indiana, sono queste ultime ma potenti forze psicologiche che modellano e creano il nuovo essere individuale e in definitiva determinano le esperienze che subisce di conseguenza. Questa è la dottrina che sta dietro la forte enfasi posta sulla necessità di un’azione libera da emozioni e attaccamento (KarmaYoga) che si trova nei primi capitoli della Bhagavad Gita, e anche all’importanza della devozione (Bhakti) nei capitoli successivi. La devozione e, in misura minore, la meditazione e il rituale, se eseguiti correttamente, si crede che si traducano in semi karmici favorevoli che aiutano a liberare la Bhuddi dai desideri e dalle paure della mente inferiore e a tendere verso la liberazione. Questo, quindi, è un processo senza inizio e senza fine – tranne quando viene interrotto dal raggiungimento della “liberazione” (Moksa) – processo da cui il mondo empirico sorge e si sostiene nella coscienza condizionata degli esseri viventi.
Quando Shankara nei suoi commentari ci dice che impressioni e forze formative, vasana e samskara, “si legano come un nodo”, si riferisce al fatto che gli esseri viventi sono condizionati da emozioni passate, pensieri e azioni – in breve, dal loro karman – che assumono la forma di forze formative definite e potenti, così che noi abbiamo solo una limitata libertà di azione all’interno di questi. Quindi, “i nodi del cuore” condizionano la consapevolezza e impediscono la realizzazione del nostro vero Atman. Tuttavia, le Upanishad affermano che i nodi del cuore possono essere superati: “Quando tutti i desideri che si aggrappano al cuore cadono, il mortale diventa immortale e raggiunge qui il Brahman. Quando tutti i nodi del cuore sono distrutti, anche se un uomo è vivo, allora il mortale diventa immortale”, dice Katha Upanishad nel passaggio citato prima. Come, allora, i nodi del cuore devono essere superati? In che modo, nella visione indiana, ci liberiamo dall’accumulazione delle impressioni karmiche e delle forze formative immagazzinate nel profondo dei livelli inconsci della mente, che ci tengono legati al mondo sempre mutevole e illusorio? La risposta è data nel versetto di Mundaka Upanishad con il quale abbiamo iniziato: “In verità, chi conosce il Brahmano Supremo diventa Brahman stesso. . . Liberato dai nodi del luogo segreto, diventa immortale.” Come, allora, possiamo conoscere il Supremo Brahman? Chiaramente non è la conoscenza intellettuale, solo teorica, che può liberarci; dopotutto, non è così difficile da comprendere e se fosse tutto ciò che è necessario molti studiosi avrebbero ottenuto la liberazione. Ciò che l’Upanishad intende per “conoscere Brahman” è qualcosa di diverso e molto più radicale di questo. Ha poco a che fare con l’accumulo di nozioni o con il modo di conoscere da soggetto a oggetto, ma consiste in un profondo cambiamento della nostra identità: una realizzazione vivente e reale che non siamo ciò che abbiamo sempre pensato di noi stessi – un essere umano individuale soggetto al continuo cambiamento e alla nascita e alla morte – ma che dietro questa esistenza quotidiana siamo in realtà qualcosa di molto diverso da questo. Le Upanishad ci dicono che il vero Sé degli esseri viventi, l’Atman e l’onnipervadente essenza cosmica, il Brahman, sono uno: “Tu sei Quello” (tat tvam asi), “Questo Sé è Brahman” (ayam atma brahma). E ci dicono anche, come abbiamo visto, che “La coscienza è Brahman” (prajñanam brahma). Questa è la chiave del cambiamento di identità che gli insegnamenti indiani cercano di realizzare -il cambio di identità che è liberazione finale, Moksa, o per usare il termine buddista, Nirvana. Perché dietro il sé individuale mutevole e alla fine irreale, che lo circonda e lo contiene, c’è la Coscienza o Consapevolezza immutabile in cui sorge. Il pensiero indiano sostiene che, nonostante il fatto che al momento sperimentiamo la coscienza come condizionata – il che significa che noi stessi conosciamo noi stessi come soggetti aventi oggetto – la natura vera è incondizionata: la coscienza come tale, come è in se stessa, “pura coscienza”.
Abbiamo visto prima che la coscienza può essere paragonata allo spazio che appare contenuto all’interno di un vaso di argilla, ma è ancora più vero dire che il vaso di argilla (e in effetti, un’infinità di vasi simili) è contenuto nello spazio. Per Shankara e altri Vedantini la coscienza che è sia Atman sia Brahman può essere paragonata allo spazio (akasa), e il sé individuale (jiva) e le sue esperienze, come tutte le cose che sono nello spazio, sono contenuti in esso e tuttavia non hanno alcun effetto sullo spazio stesso. Shankara chiama la coscienza onnipervadente “Testimone” (saksin) ed è talvolta paragonata ad un occhio. Ciò vede che cambia continuamente, ma la sua natura, la pura coscienza è immutabile e quindi libera dalla paura, dalla mancanza o dal desiderio. Essa testimonia la vita, la morte e la rinascita. Niente di tutto ciò la tocca.
È questa Coscienza immutabile che le Upanishad chiamano l’Atman o il Sé, identico alla Vastità o Brahman.
Per il pensiero indiano, è nella Realtà sottostante in cui il mondo e tutto ciò che appare a noi ha il suo essere, e nel momento in cui lo sappiamo – dove sapere qui significa esperienza effettiva, conoscenza diretta e vivente – che i “nodi del cuore” sono dissolti. Perché è con la realizzazione di non essere il sé individuale o jiva come avevamo sempre pensato, ma la Consapevolezza o Coscienza immutabile all’interno della quale il sé individuale appare per un certo tempo, che il nodo del cuore formato da impressioni karmiche profondamente radicate e forze formative e vincolanti è dissolto, e non con la forza, poiché Alessandro ha tagliato il nodo gordiano, ma con la spada della conoscenza. È ciò che il versetto con cui abbiamo iniziato cerca di dirci: Egli, infatti, chi conosce il Brahman Supremo diventa Brahman stesso. . . Liberato dai nodi del luogo segreto, diventa immortale.