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Logos e Brahman: raffronto tra il pensiero di Eraclito e le dottrine indiane.

Logos e Brahman: raffronto tra il pensiero di Eraclito e le dottrine indiane
di Ada Somigliana
da «Sophia», gennaio-giugno 1959, pp. 87-94.

Gli studiosi sono, per lo più, d’accordo sul valore che ha in Eraclito il termine Logos da un punto di vista generale; ma le opinioni divergono, quando si scenda al particolare e si debba spiegare in quali rapporti esso si trovi con determinati concetti espressi dal filosofo che, si comprende bene, debbono essergli collegati.

G. S. Kirk, in un suo recente saggio nella Revue philosophique [1], scrive: «Logos si trova nel fr. 1, nel fr. 2 e nel fr. 50. La difficoltà è che non sappiamo ciò che Logos voglia dire in questo senso». E continua: «Si tratta di qualche cosa che si può intendere e di cui si può sentir parlare (fr. 1), o di qualche cosa che si può ascoltare (fr. 50), o seguire e alla quale si obbedisce (fr. 2); tutte le cose avvengono secondo essa (fr. 1), essa è comune (ciò vuol dire, probabilmente, presente in tutte le cose, dunque afferrabile da tutti gli uomini) (fr. 2) etc.»; e conclude affermando che Logos sembra essere qualche cosa come «la verità delle cose».

Il moderno esegeta è riuscito a rilevare tutte le caratteristiche dell’Ente, che domina sovrano nella costruzione eraclitea; ma egli non ci spiega in quale connessione esse siano tra loro. Infatti questo non si rileva facilmente dai frammenti, considerati a sé, tanto più che la bivalenza di talune espressioni della lingua greca dà adito a diverse interpretazioni. Il neutro hén, per esempio, può esser tradotto “una sola cosa”, come nel fr. 41 (Essere una cosa sola il sapere: conoscere l’intelletto, che governa tutto nel tutto), ma può essere tradotto anche “l’Uno”. Così nel fr. 29: «I migliori scelgono l’Uno invece di tutte le cose, gloria eterna invece di soddisfazioni mortali». e nel fr. 50: «Non a me, ma al Logos dando ascolto, conviene riconoscere che l’Uno è tutte le cose», e nel fr. 57: «Dei più e maestro Esiodo; ritengono ch’egli tutto sapesse, lui che non conosceva il giorno e la notte: sono infatti l’Uno».

Con il cambiamento di una sola parola muta profondamente il valore ed il significato dei tre frammenti. Il filosofo non ci parla, in forma misteriosa, di una cosa non facilmente identificabile, ma dice chiaramente: l’Uno. E poiché questo Uno è tutte le cose (fr. 50), poiché questo Uno rappresenta la gloria eterna (fr. 29) ed in esso s’identificano i contrari (fr. 57), non abbiamo difficoltà a riconoscere quell’entità metafisica ch’è al centro della speculazione eraclitea, presente in tutti gli esseri ed in tutte le cose e realtà spirituale di ciascuno di noi [2].

Essa viene dal filosofo chiamata con differenti nomi, secondo il suo diverso modo di manifestarsi nell’universo e nella psiche [3]. Tra questi nomi vi è quello di lògos, che letteralmente significa Parola; ma non una parola qualunque, perché in essa è contenuta l’idea di qualche cosa di eletto e di spirituale, e veniva usata fin dall’epoca di Omero ad esprimere un’attività dello spirito.

Tale termine trova il suo equivalente in un nome largamente usato nel linguaggio metafisico dell’India, per indicare un’entità che ha le stesse caratteristiche del Logos, e questo nome è Brahman. Esso trae origine dal culto sacrificale e, nei testi vedici più antichi, aveva il valore di “parola sacra” con speciale riferimento al suono “Aum” (om), che i sacerdoti, nel cantare gli inni durante i sacrifici, ripetevano dopo ciascun verso [4]. Poiché si attribuiva grande potenza al sacrificio e si riteneva che la parola sacramentale pronunciata dal sacerdote operasse con magico potere su tutto l’universo, così il Primo Principio si metteva in relazione d’identità con la formula sacrificale ed il termine Brahman veniva usato, nella speculazione teosofica, quale punto d’attacco dell’idea per giungere alla conoscenza dell’Inconoscibile.

Ma la genesi di questo nome ha solo un interesse indiretto ai fini del nostro studio; quello ch’è importante per ora precisare è il parallelismo dei due termini Logos e Brahman, che hanno entrambi il significato di Parola con un certo valore di sacralità e stanno entrambi ad indicare l’Ente preso in senso astratto e quale espressione di supremo Vero [5]. Quando, come ho avuto occasione di osservare altrove [6], si tenga presente che questa entità divina è cosmica e psichica nel tempo stesso, e che l’essere umano, secondo il nostro filosofo, è compenetrato dallo spirito eterno, il quale rappresenta il suo “Io” trascendentale ed assoluto, non è facile rispondere al quesito che il Kirk si pone riguardo al valore del termine Logos nei su citati frammenti.

Il primo di essi si basa sull’importanza che il filosofo attribuiva alla conoscenza del Logos, particolare che non è sfuggito al Kirk e che trova, come il resto, piena rispondenza nelle dottrine dell’antico Oriente. Infatti, secondo il pensiero indiano, il tempo ha carattere ciclico [7] ed il mondo storico e le forme che si sviluppano nel tempo, viste sul piano dei ritmi cosmici, non hanno valore, perché mancano di durata e si definiscono per l’esistenza dei contrari. Ma, se si considera che il tempo e l’eternità (kâlâc-âkalaçca, tempo e senza tempo) sono due aspetti di un unico ente (aspetto manifesto e non manifesto) [8], che riunisce in sé tutte le polarità e le opposizioni, chi accede ad esso, realtà unica che trascende «il giorno e la notte» [9], ossia trascende i contrari, che sono l’espressione della limitatezza e della sofferenza, «passa al di là del dolore» [10].

«Chi vede [questa verità] non vede la morte, né la malattia; né il dolore; chi vede, vede il Tutto, raggiunge il Tutto da ogni parte. Egli diventa unico, diventa triplice, settemplice e nonuplo, ed inoltre vien ricordato ch’egli è undici e centoundici e ventimila» [11].

Ma questa conoscenza, che viene considerata il più alto vertice del sapere e via di salvazione [12], non è agevole né accessibile a tutti; solo pochi eletti possono pervenire ad essa attraverso l’insegnamento di un maestro che «li liberi dalle bende dell’ignoranza» [13] e l’aiuto della fede perché «quando uno, invero, ha fede, allora pensa. Chi non ha fede, non pensa» [14].

Pure Eraclito quando, nel primo frammento, accenna al Logos come a «qualche cosa di cui si può sentir parlare» (Kirk), allude a questa dottrina metafisica, ch’egli si accingeva a spiegare nel suo libro. Nel fr. che stiamo esaminando infatti si legge:

«E la Parola, che pure è sempre quella, gli uomini non la intendono né prima di averla ascoltata [15], né ascoltandola per la prima volta.

Infatti pure avvenendo ogni cosa secondo la Parola, inesperti ne sembrano anche quelli che hanno esperienza di idee e fatti, quali io espongo, spiegando ciascuna cosa secondo natura ed indicando come sia».

«Sempre quella», perché eterna, come giustamente intende lo Zeller, e pure perché costantemente presente in tutte le cose, di cui costituisce l’unica essenza [16]. Ma a questa importante verità metafisica gli uomini non sono capaci di arrivare da soli, e non sanno neppure comprenderla quando venga loro insegnata per la prima volta.

Inoltre, benché tutto avvenga attraverso questo Ente, il quale rappresenta la forza universale operante sullo svolgimento di tutti i fenomeni naturali, non lo conoscono neppure quelli che hanno dimestichezza con tale genere di studi (e qui forse Eraclito vuole alludere ai filosofi della Natura, che indagavano sui problemi della generazione e dissoluzione). Ad essi è rivolto l’insegnamento dell’Efesio, non agli altri uomini, che non sono animati dal desiderio di conoscere la verità, di cui non comprendono il valore ed il significato, indifferenti ed inconsci, quasi dormienti.

«Agli altri uomini sfuggono le cose che fanno quando sono desti, come non sanno quanto compiono dormienti».

Nella seconda parte del frammento ho seguito la traduzione dello Zeller (da cui si discosta il Mazzantini) e a spiegarne le ragioni mi si permetta una breve digressione.

Eraclito considera il sonno da un punto di vista metafisico: l’uomo, durante il sonno, separato dal mondo sensibile, vive d’intensa vita spirituale, alimentandosi alla luce della propria anima [17], e crea sogni e si immedesima con l’Assoluto [18]. In tale stato egli supera questo mondo d’illusorie differenziazioni, ritrova il Vero e con esso la suprema beatitudine. È una condizione simile a quella riservata allo spirito umano, quando la morte abbia spezzato i legami con la realtà empirica: per questo l’uomo dormendo «si accosta a chi è morto» (fr. 26). Poi, al risveglio, perde coscienza di quanto è avvenuto durante il sonno e dimentica la luce della verità, per lasciarsi nuovamente ingannare dall’apparenza delle cose labili e transitorie («Morte sono le cose che vediamo appena desti», fr. 21) [19]. Per questa ragione lo stato di veglia, dal punto di vista metafisico, è simile allo stato di sonno dal punto di vista fisico («svegliato si accosta a chi dorme», fr. 26). Ora l’espressione «Non sanno quanto compiono dormienti», del fr. che stiamo esaminando, si riferisce all’oblio per l’uomo, durante lo stato di veglia, di quanto era avvenuto mentre dormiva.

Nel corso del libro il filosofo parlerà poi ripetutamente di “dormienti” in senso metaforico [20]. Nel fr. 75 li chiama «cooperatori inconsapevoli dell’ordine cosmico», nel fr. 73 ammonisce che «non bisogna parlare ed agire come dormienti», e nel fr. 89 afferma che «per i pienamente desti esiste un solo mondo sociale; i dormienti si ripiegano ciascuno verso un proprio mondo personale».

Questo ultimo si spiega più facilmente congiungendolo con il fr. 2, che tradurrei:

«Bisogna seguire ciò ch’è comune. Ma, pure essendo la Parola comune a tutti, i più vivono come se avessero una ragione personale».

Il termine xynós non indica qui solamente, in senso generico, «presente in tutte le cose e quindi afferrabile da tutti gli uomini», come pensa il Kirk, ma piuttosto comune a tutti gli uomini in quanto presente nella loro anima, con la quale s’identifica, ed espressione di Verità vivente in loro (fr. 45, fr. 115 e fr. 119).

Per questa ragione gli uomini debbono considerarsi un tutto sociale, non viventi una vita indipendente ed esclusiva. Quindi le idee da seguire sono quelle che, essendo comuni a tutti, debbono essere considerate vera manifestazione del thèion, non espressione personale ed inganno dei sensi. [21]

Si comprende quindi come “per i pienamente desti”, cioè per coloro che hanno capito il vero valore della vita, nella quale l’umanità rappresenta un tutto unico ed inscindibile (qualche cosa di più che un vincolo di fratellanza), esista “un solo mondo sociale” e “i dormienti”, che non sono consapevoli del legame che li unisce ai loro simili, si ripieghino ciascuno verso un loro mondo esclusivo.

Poiché, come abbiamo visto, il nostro filosofo attribuisce somma importanza alla Sapienza [22], intendendo per sapienza la “Metafisica dell’Essere”, nella quale egli vede la soluzione di tutti i problemi della vita universa, ne consegue ch’egli giudica prevalentemente i suoi simili secondo l’interesse che manifestano per essa [23].

Dunque vediamo da una parte i pochi saggi che ricercano la Verità e dall’altra «oi pollòi», i quali o si curano esclusivamente delle soddisfazioni materiali che la vita può offrire loro e «si rimpinzano come capi di bestiame» [24]; o danno ascolto alle leggende diffuse dai cantori del popolo [25] e seguono le antiche tradizioni, senza valutarne la consistenza e la veracità.

Non bisogna quindi prendere a maestro il volgo perché «oi pollòi kakòi, olígoi de agathòi» (fr. 104). E anche in questa affermazione la parola del sommo filosofo greco suona concorde con quella dell’antico savio d’Oriente:

«Che il brahmano, nella sua saggezza, avendolo riconosciuto [l’Uno] realizzi la Scienza. Che il suo pensiero non segua le idee della folla: le stesse sono parole vacue» [26].

Come abbiamo visto [27], i punti di contatto tra la speculazione eraclitea e quella indiana non sono pochi né trascurabili. Dal concetto dell’Uno-tutto all’identità dell’anima universale con quella individuale, dalla Teoria degli Opposti al loro superamento attraverso la conoscenza dell’Essere, dall’importanza dell’introspezione al disprezzo per coloro che ignorano le supreme verità metafisiche, dalla dottrina delle “due vie” a quella dello stato dello spirito durante il sonno, abbiamo tutta una catena di concordanze che involgono l’intero sistema [28], le quali, per il loro particolare carattere, non possono essere effetto del caso e non vanno quindi sottovalutate.

E ritengo utile insistere su questo punto perché, oltre a ragioni di metodo [29], ci sono dei fattori psicologici che, nonostante il nostro sforzo verso l’oggettività, ci spingono a non tenere quelle concordanze nella dovuta considerazione. Anzitutto il nostro orgoglio di Occidentali avvezzi a vedere in Grecia la culla del pensiero: poi il fatto che il mistero di Eraclito è un mito che amiamo. Intorno ad esso si sono misurati i nostri migliori ingegni e le loro opere, alcune delle quali apprezzabilissime per indagine storica e profondità di pensiero, qualora mutasse l’orientamento critico, dovrebbero per buona parte esser rifatte su di un piano completamente diverso. Infine i frammenti del filosofo, se esaminati alla luce del pensiero vedico, si compongono in unità intorno ad un nucleo centrale, l’Uno (il Logos), e tutto diviene chiaro, semplice, facile [30]; troppo semplice e troppo facile in rapporto all’immagine che di Eraclito, come osserva il Kirk [31], ci eravamo creati, prestandogli i termini di una speculazione posteriore.

La sua figura, ad ogni modo, non ne uscirebbe menomata, perché era più difficile per lui, educato nell’ambiente greco del suo tempo, penetrare nel vero spirito del pensiero orientale, di quanto non sia oggi per noi comprendere i suoi frammenti. Dobbiamo infine tenere presente che per opera sua il primo germe della speculazione aria, che doveva poi nel paese d’origine subire un processo involutivo, prendeva invece in Occidente grande sviluppo e dava frutti preziosi.

Note

1- Kirk, Logos, armonie, lutte, Dieu et feu dans Héraclite, in Revue philosophique, 1957, 3 Juillet-sept., pp 290-291.

2- A. Somigliana, Dall’Advaita al Logos eracliteo, nella Riv. Annali (Milano, vol. III. marzo-agosto 1954, pp. 245 e sgg.; vol. IV, genn.-giugno 1955 pp. 18 e sgg.; luglio-ott. pp. 38 e sgg.

3- Questo si riscontra pure negli antichi testi teosofici indiani, dove l’Ente viene chiamato con diversi nomi, tra i quali: Fuoco, Lampo, Luminoso, voci tutte che troviamo usate in questo senso pure nel libro eracliteo. Che pyr e lògos siano due nomi che si riferiscono alla medesima cosa, e precisamente all’Ente Primo, appare evidente anche dal fr. 31:

a) «Mutazioni del Fuoco: prima il mare [nel senso di acque primordiali], del quale una metà si fa terra, l’altra metà turbine di fuoco».

Il filosofo, che aveva accettato il punto di vista degli antichi pensatori indiani i quali vedono nella creazione la trasformazione del Supremo Principio, qui forse allude alla cosmogonia vedica, secondo la quale inizialmente vi era solo «il non essere, che era l’essere» (sadasadâtmakam), vale a dire il Principio ch’esisteva per sua natura, ma non per i sensi. Poi esso si rese manifesto prima nelle acque primordiali, quindi nell’uovo cosmico, di cui una metà era d’oro, l’altra metà d’argento. Infine la metà d’argento si trasforma in terra. quella d’oro in cielo infuocato.

L’Aranyaka-upanisad così si esprime: «Le acque erano “Ciò” [neutro, e significa l’Ente immaginato come coscienza assoluta e pura]. Le acque emisero il Vero; il Vero è il Brahman» (Aranyaka, V, VI, I).

b) «Il mare si diffonde e si commisura secondo quella stessa Parola, che esso era prima di divenire terra», ossia: le mutazioni sono apparenti, l’essenza è sempre la medesima. Il mare lògos, era prime, e lògos è ancora adesso, e come tale soggetto alla medesima legge.

4- La sillaba “aun” è l’inizio dei Veda e con essa il sacerdote iniziava il canto dell’Udgita.

5- Nell’Aranyaka-Up. troviamo questa definizione: “Il Brahman è l’Essere in sé” (IV, V, 28).

6- Oltre al saggio citato a nota 2, v. In margine ad un frammento di Eraclito, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Anno XLIX, sett.-dic. 1957, pp. 511-515.

7- È noto che pure per Eraclito il tempo ha carattere ciclico; anche in questo egli seguiva il sistema indiano, non quello sumerico poiché, come apprendiamo da Censorino (De Die Natali, XVIII), egli considerava il “Grande Anno” di 10.800 anni, mentre l’anno babilonese era costituito da 432.000 anni. Per guanto riguarda l’anno indiano v. l’interessante saggio di Jean Filliozat: Le symbolisme du monument du Phnom Bakhên, in «Bulletin de l’Ecole Française d’Extrème Orient», Tome XLIV, 1954, II, pp. 538 e sgg.

8- V. Maitri-Up., VII, II, 8. Il concetto dell'”aspetto manifesto e non manifesto” dell’Ente richiama, in un certo senso, al pensiero l’armonia visibile e invisibile di Eraclito.

9- Nell’Aranyaka (che, secondo il Deussen, sarebbe la più antica fra le Upanisad) sta scritto:

«Poiché tutto ciò è ghermito dal giorno e dalla notte, per mezzo di che un sacrificante è liberato al di là del dominio del giorno e della notte?» (Lett. II’, I. 6).

10- Richiamo l’attenzione degli studiosi sull’importanza che Eraclito attribuiva alla conoscenza del giorno e della notte (fr. 57), e sulla sua affermazione: «ésti gar hen» (È infatti l’Uno). Essi dunque, secondo il filosofo, rappresentano due differenti aspetti dell’unico Ente, nel quale i contrari coincidono. Infatti nel fr. 65 egli scrive: «Il Fuoco: mancamento-sazietà, guerra-pace»; e nel fr. 87: «Dio: giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sovrabbondanza-carestia etc.».

11- V. Chandogya-Up., 26-2. Questo passo, benché i numeri non corrispondano, richiama un epigramma scritto contro Eraclito di cui dà notizia Diogene Laerzio (IX-16): «Io sono Eraclito; perché mai, gente incolta, mi trascinate in su e in giù?» (allusione a quanto sta scritto nel fr. 60 connesso con la dottrina indiana delle “due vie” -v. A. Somigliana, Influenze vediche nel pensiero eracliteo, Ed. Annali, Milano 1953. pp. 18 e sgg.). «Non lavoravo per voi: per quelli che mi comprendono. Un solo uomo è per me tre volte diecimila e gli innumerevoli sono per me come nessuno». Non sappiamo se chi ha scritto l’epigramma abbia alterati i numeri, (che in India avevano un significato liturgico, e in Grecia non dicevano nulla di particolare); ma vi è analogia di pensiero e di stile. Forse l’epigramma allude ad un frammento andato perduto; ad ogni modo in alcuni di quelli rimastici troviamo già questo punto di vista, anche se espresso in forma un po’ diversa.

12- Nei primi tempi gli Indiani vedevano la salvezza dell’uomo nella conoscenza dei supremi veri; più tardi, con l’avvento del Krisnaismo, la vedranno nella fede.

13- V. Chand.-Up., VI, XIV, 1-2. La difficoltà di conoscere l’Ente è chiaramente affermata pure nell’Aranyaka, dove, tra l’altro, sta scritto: «Quello che stando in tutti gli esseri è differente da tutti gli esseri e che gli esseri non conoscono…« (III, VII, 20). Richiamo l’attenzione degli studiosi sulle parole: «Quello che stando in tutti gli esseri, è differente da tutti gli esseri». Analogo concetto esprime Eraclito nel fr. 108: «Di quanti ho udito i discorsi, nessuno si profonda tanto nel vero da intendere che il Sapientissimo è diverso da tutti gli esseri»; forse il filosofo vuole alludere all’antropomorfismo della religione greca (v. Senofane).

Taluni esegeti hanno invece tradotto “è separato”, ed allora entriamo in un altro ordine d’idee ed il fr. si potrebbe spiegare riferendosi al fatto che l’Essere, presente in tutte le creature, non si confonde con esse e le trascende. Io preferirei, ad ogni modo, tradurre: “si distingue”, che rende più chiaramente il concetto.

14- Ed Eraclito, nel fr. 86, scrive: «Ma delle cose divine la maggior parte sfugge alla conoscenza umana per mancanza di fede» (trad. Mazzantini).

15- Qui “ascoltare” significa: apprendere da un maestro.

16- Cfr. fr. 50: «L’Uno è tutte le cose». Questo concetto non è completamente nuovo per la filosofia greca (v. Platone, Sofista, 242 C-D). e lo troviamo enunciato pure da Senofane, il quale, anche per altre affermazioni, ci fa pensare che qualche notizia, diretta o indiretta, dell’esoterica dottrina fosse a lui pervenuta. Non ha torto il Covotti di affermare che «malgrado i rimbrotti, un punto di contatto tra la concezione del divino di Senofane e quella di Eraclito ci deve essere». (A. Covotti, I Presocratici, Rondinella 1934). Se si pensa che il concetto dell’Uno-tutto è la chiave di volta della filosofia eraclitea, dobbiamo convenire che tale concordanza non è priva di significato. Inoltre entrambi i filosofi mettono in rilievo la debolezza della mente umana in confronto della sapienza divina.

17- «Nella notte accende un lume a se stesso…» (fr. 26). A chiarire maggiormente il significato di questo fr., dove il pensiero del filosofo greco sembra tanto vicino a quello dei savi upanisadici, oltre ai passi già citati nei miei precedenti saggi, ne riporto altri di differenti testi:

«Distruggendo da se stesso, fabbricando da se stesso, per mezzo del suo proprio splendore, per mezzo della sua propria luce esso dorme sognando; allora questo “Purusha” ha la sua luce in se stesso…». (Aranyaka, II, IV, 10).

«Per mezzo del sonno, mantenendo in completo riposo il corpo, esso, che non è addormentato, illumina del suo sguardo coloro che sono addormentati». (Aranyaka, III. IV, 12.

«Quel “Purusha”, che veglia nei dormienti, creando questo e quel godimento, è la vera luce, è il Brahman». (Kathaka, II. IV, 1).

«Avendo vagabondato, avendo visto il bene ed il male, in senso inverso ritorna verso di sé per il risveglio. Di quanto esso ha potuto vedere in quello stato, nulla lo accompagna». (Aranyaka, IV, III, 17).

«Quando uno dorme così, lo spirito, fatto di conoscenza, riprende agli organi la facoltà che aveva loro prestata di conoscere». (Chandogya, VI-I-2).

«Nel sonno l’anima. l’unico uccello d’oro dello spirito, respingendo il corpo, veglia ed abbassa lo sguardo su coloro che dormono; in possesso della luce essa ritorna al suo [vero] posto. Mentre essa lascia il soffio vitale [il respiro] sorvegliare il suo nido anteriore [cioè, il corpo], immortale essa s’invola da questo nido e circola dove le piace. Nel sogno essa va in alto e in basso Dio [poiché l’anima individuale s’identifica con l’anima universale], essa crea numerose forme». (Brhd-Aranyaka, IV, III, 12 e sgg.).

Confrontare la precedente citazione con quanto scrive Sesto Empirico (Adv. Math., VIII, 129): “Secondo Eraclito, dunque, diveniamo intelligenti accogliendo, in noi per ispirazione questa Ragione Divina: nel sonno ne siamo dimentichi, nella veglia di nuovo consapevoli. Nel sonno infatti, chiusi i pori sensibili, la mente ch’è in noi rimane priva del suo naturale collegamento col Principio tutto circordante, rimanendo soltanto integro, come una specie di radice, il nesso respiratorio e, così separata, perde questa nostra mente la facoltà mnemonica che prima possedeva».

Si ha l’impressione che Sesto abbia letto nel libro eracliteo qualche affermazione del genere e l’abbia fraintesa, anzitutto perché egli guarda le cose da un punto di vista fisico (e l’Efesio parla di metafisica), e poi perché considera il Principio come qualche cosa di esterno all’uomo, mentre, secondo Eraclito, esso lo compenetra e s’identifica con la sua anima (V. la testimonianza di Aristotele, il quale afferma che, secondo Eraclito, il Principio è l’anima, De Anima, A, 2. 404).

18- «Quando l’uomo dorme, egli si riassimila con l’Essere, egli rientra nel suo vero se stesso» (Chandogya, VI, I, 2).

19- In questo stato di sonno l’uomo si eleva, dice la Brhadânyaka (IV, III, 14) al di sopra «di questo mondo e delle forme di morte» (mrtyo-rûpani). E qualche pagina indietro leggiamo: «In verità questo Purusha, quando nasce, quando si riveste di corpo, entra in contatto con i mali, e quando se ne distacca abbandona i mali, che sono le forme della morte» (III, IV, 8).

20- Il filosofo allude a coloro che guardano il mondo dal punto di vista empirico. Essi rimangono ingannati dall’aspetto esteriore delle cose e le vedono molteplici (fr. 56: «S’ingannano gli uomini nella conoscenza delle cose manifeste», e fr. 107: «Cattivi testimoni sono gli occhi e le orecchie per gli uomini, quando abbiano anime barbare»); invece quelli che sanno elevarsi ad un punto di vista trascendentale (“i pienamente desti”, fr. 89), ricercando le cose in sé (autá kath’autá), indipendentemente da come appaiono alla nostra conoscenza, scoprono dietro la mutevole apparenza l’Essere unico, immutabile, eterno che, come direbbe Gentile, «è la radice dei soggetti empirici, l’unità della loro molteplicità».

21- È un concetto che Sesto Empirico ha capito con sufficiente chiarezza, cfr. Adv. Math., VII, 127.

22- V. nota 6.

23- Oltre ai passi già citati cfr. l’Aranyaka, III, VIII, 10: «Colui il quale in verità, o Gârci, senza conoscere questo imperituro se ne va da questo mondo, costui è un miserabile…». Il disprezzo non è inferiore a quello manifestato da Eraclito per coloro che non si curano di conoscere i supremi veri.

24- V. fr. 20 trad. Mazzantini.

25- V. fr. 104.

26- V. Aranyaka-Up., IV, XIV, 2-3.

27- Cfr. anche i saggi sopra citati.

28- Alcuni studiosi sono disposi a riconoscere l’origine orientale di qualche concetto o di qualche frammento di Eraclito e, nel tempo stesso, si dichiarano avversi alle interpretazioni basate sulla filosofia orientale. Essi non si accorgono che, in tal modo, anzitutto ammettono implicitamente che tali dottrine dovevano esser note al filosofo e poi non tengono presente che i frammenti non possono essere considerati avulsi l’uno dall’altro. Se l’Efesio accetta «l’inserirsi dei morti nella Ragione Eterna come un riassorbimento» (v. C. Mazzantini, Eraclito, Pref., p. 42) deve, per necessità di cose, aver accettato pure il concetto dell’Uno-tutto, che ne è la premessa ed il fondamento.

29- Per quanto riguarda la critica storica è importante tener presente che, anche se mancano documenti a provare l’esistenza di rapporti culturali tra India e Grecia, non mancano elementi che possano farci ritenere probabile la loro esistenza. A quanto scrive a questo proposito Jean Filliozat (L’Inde et les échanges scientifiques dans l’antiquité, in «Cahiers d’Histoire Mondiale», vol. I, n. 2, oct. 1953) credo di dover aggiungere che se, come prova l’Iscrizione di fondazione del palazzo di Dario a Susa, le materie prime per l’opera erano venute dal più lontani paesi dell’Impero, India compresa, non è da escludere che lo’ stesso spirito cosmopolita si sia fatto sentire nella costituzione della fastosa corte. che quella reggia doveva ospitare.

30- Vengono ad essere eliminate anche buona parte di quelle contraddizioni che eravamo abituati a considerare effetto di un pensiero in formazione.

31- È il concetto a cui è ispirato lo studio di G. S. Kirk, Heraclitus, The Cosmic Fragment, Cambridge, University Press. 1954.

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