IL TEMPO DEL PERDONO E LA LOGICA DEL NEMICO – RAIMON PANIKKAR
(la Repubblica, martedì 9 ottobre 2007)
<< Occorre rilevare che gli scontri di civiltà, storicamente, hanno a che fare con il problema della verità e del suo possesso esclusivo. Non si può negare che in nome della verità si siano commessi crimini spaventosi e trovate giustificazioni orribili
Non dico che funzionerà, ma ancora non se ne è fatta una autentica prova. Nella pratica personale funziona. E ciò non vuol dire affatto sottomettersi a un´altra civiltà o perdere la propria identità. L´identità culturale la si perde così facilmente?
Quando il cristianesimo è stato potente? Quando era perseguitato. Quindi anche nelle persecuzioni una civiltà matura, cresce, acquista una propria identità. Avere paura del nemico non è la stessa cosa del non resistere al nemico. Il Vangelo lo dice chiaramente.
Di cosa ho paura, di perdere un´identità che è così debole che non si sostiene da sola? Se ho così poca fiducia in me così come nella civiltà occidentale, qualsiasi venticello mi farà pensare che saremo attaccati. Ogni civiltà contiene tutto – l´amore e l´odio, una cosa e il suo opposto – e io devo averne una visione particolareggiata.
Qual´è, per essere concreti, lo Stato musulmano più popoloso al mondo? L´Indonesia. E gli indonesiani non sono così pericolosi! Il secondo: l´India. Poi il Pakistan. Io fin´ora non ho incontrato, in queste popolazioni, nazionalismi e fondamentalismi così feroci. India e Pakistan si sono combattute tante volte, ma per ragioni storiche e politiche molto concrete.
Voglio dire che non dobbiamo fare una caricatura delle altre civiltà, in caso contrario non lamentiamoci se anche loro ne fanno una simmetrica di noi e della nostra civiltà. La logica della ritorsione non funziona come difesa contro il crimine o contro il disordine. Gli ultimi fatti che lo dimostrano sono gli esiti delle guerre in Afganistan e Iraq.
C´è una strada da esplorare per non cadere negli scontri di civiltà ideologicizzati: è quella della pace e del perdono. A mio parere c´è una relazione diretta tra pace e perdono. Ho scritto tanti anni addietro che soltanto il perdono rompe la legge del karma, dell´occhio per occhio e dente per dente. Il perdono ha una dimensione che lo rende così grande e difficile: è un atto eminentemente religioso. Il perdono se non esce dal cuore non è tale. Io posso non vendicarmi, ma la ferita continua.
Detto in termini teologici: il perdono è una decreazione. Se la creazione è fare dal nulla una cosa, il perdono è fare che quella cosa torni al nulla. E perciò non ho bisogno di vendetta, non ho bisogno di restituzione, non ho bisogno di nulla. La grande difficoltà consiste in come sia possibile tradurre ciò in termini politici. Non ho una soluzione, ma ho due commenti.
Il primo commento è che tutti i nostri grandi sforzi per chiedere la restituzione di un danno subito (evitando il perdono) non hanno funzionato per quaranta secoli. Mentre il perdono, realmente, ancora non lo abbiamo provato.
Il secondo commento è che il perdono ha un effetto catartico, purificatore così importante che cambia l´altro. L´altro si rende conto che ha fatto una cosa che non andava bene e che tu lo hai ripagato con un atto unilaterale di perdono: per tutta la vita sarà felice e fedele, perché lo hai guarito, per sempre, con il tuo perdono.
Però bisogna essere chiari su un tema così delicato. Il perdono non è azione-reazione. Ha bisogno di un tempo di maturazione, per perdonare è necessario aspettare. Sapere aspettare costa, e noi viviamo in una civiltà che vorrebbe fare tutto immediatamente. C´è un tempo per il perdono che non è la reazione istantanea all´offesa. Sarebbe quasi una burla, o un´impunità. Il perdono ha un tempo di maturazione, è una decisione che arriverà a suo tempo. Se non c´è stata questa maturazione interiore, io non sarò disposto a perdonare, perché ancora sento la ferita, né l´altro sarà pronto a riconoscerlo, perché si sentirebbe impunito. Trovare questo equilibrio tra tempo e atto del perdonare è importantissimo. Questo appartiene alla virtù reale della prudenza.
E’ necessario rilevare che gli scontri di civiltà, storicamente, hanno a che fare con il problema della verità e del suo possesso esclusivo. Non si può negare, infatti, che in nome della verità si siano fatti crimini spaventosi e trovate giustificazioni orribili. Noi non siamo i padroni della Verità. Citando San Tommaso: «chi ha trovato la Verità è posseduto dalla verità, non ne è il padrone». La verità ci possiede. La verità è relazione, è sempre un essere con l´altro, altrimenti non è verità. La verità assoluta è una contraddizione, proprio perché la verità è relazione.
Il grande pericolo, e qui non vorrei scandalizzare nessuno, è il monoteismo. Il monoteismo pensa che Dio è la Verità, perché il monoteismo pensa un Dio isolato, un Dio solo. Non è così in tutti i monoteismi, la questione è molto complessa, ma vi è questo costante pericolo: benché io non possieda la Verità, c´è un Dio che la possiede e questo Dio ce l´ha rivelata. Non mi convince il monoteismo. Penso che il monoteismo non sia cristiano, perché il cristianesimo crede nella Trinità.
Ma anche per la mistica dell´Islam ci sono tre realtà: l´amore, l´amante e l´amato. Per la Cabala sono tre le cose increate da Dio: la Torà, la Legge e il popolo. La Trinità è molto più estesa, anche nelle religioni cosiddette monoteiste, di quanto non si creda. Pur riconoscendo che in nome della verità assoluta si sono fatti tantissimi crimini, dico questo: quella non è la verità.
Una verità che io immagino come assoluta, togliendole quindi ogni relazionalità – che è l´essenza della verità – per definizione non è verità, nemmeno quella che viene presentata come divina. Quindi smascherare questa piaga dell´umanità è un progresso, che è necessario operare in questo momento storico. Dove il contrario non è l´indifferenza, non è affermare che la verità non esiste. La verità esiste, ma è relativa: a noi, ad una mente, a qualsiasi cosa.
A questo proposito devo dire subito ai puritani, non per consolarli ma per chiarificare, che la relatività che io difendo e di cui sono convinto, non è il relativismo, dove tutto è uguale. La relatività non è relativismo: la verità è relativa. Ma per superare il relativismo non si deve cadere nell´assolutismo. Il rimedio sarebbe peggio della malattia. Il relativismo non va bene, ma la relatività implica di non perdere la misura umana. Non si progetta su un punto omega infinito.
E’ la nostra vita quella che conta e la mia verità (per essere sincero direi la mia convinzione, e sono convinto pienamente di tutto quello che dico) non la assolutizzo perché può esserci un punto di vista diverso e un´angolatura differente. Quindi, pur riconoscendo che, in nome della verità, si sono commessi grandi crimini, io ancora difendo l´idea della verità come relazionalità e non come assolutismo. L´uomo isolato, solo – e la solitudine dell´uomo contemporaneo è una malattia dell´anima – non regge, non può respirare, non esiste. Ha bisogno dell´altro, l´altro come portatore di un messaggio. Come dice la tradizione musulmana: «lo sconosciuto può essere un angelo».
Dobbiamo aiutarci reciprocamente e essere consapevoli, proprio nel confronto tra culture e spiritualità diverse, che la verità non è possesso personale, io non sono l´unico essere buono di questo mondo, l´unico che capisce cos´è la verità. Abbiamo necessità di comprendere che la verità, forse, «quando cade dal cielo sulla terra si rompe in cento pezzi, un pezzetto a disposizione di ciascuno». >>