Parmenide filosofo e guaritore sacro. Il viaggio ultraterreno dello iatromante e l’origine sciamanica della filosofia.
I. I ritrovamenti di Velia.
Nel 1958 le spedizioni archeologiche di Pellegrino Claudio Sestieri e Mario Napoli nei territori italiani, dove un tempo sorgeva Velia, misero in luce qualcosa di sconvolgente per il pensiero filosofico contemporaneo. I ritrovamenti erano semplici iscrizioni che testimoniavano la presenza a Velia di un forte culto per Apollo Oulis. Diffuso per lo più nelle regioni costiere dell’Anatolia occidentale – ossia le terre di provenienza dei focei, Apollo veniva pensato e venerato come distruttore che risana e guaritore che distrugge. Gli uomini a cui le tre iscrizioni facevano riferimento erano chiamati guaritori e phōlarchós. L’uomo votato ad Apollo è un guaritore e caso vuole che Asclepio – mitico fondatore della medicina – sia figlio di Apollo. La guarigione non è chiaramente quella che noi oggi comunemente intendiamo, piuttosto in quel contesto significava l’entrare in una dimensione altra rispetto quella vissuta, un livello di consapevolezza tale che è esclusivamente la comunicazione con il divino a guarire.
Phōlarchós è la combinazione di phōleós, rifugio e archós, signore. Il phōleós era il rifugio nel quali gli animali giacevano immobili in uno stato letargico, uno stato di morte apparente. Dunque i Phōlarchós sono i custodi del rifugio come luogo dell’incubazione, ovvero luogo dove si credeva avvenisse la guarigione: le persone dovevano giacere in una condizione di letargia e lasciare che Apollo li penetrasse guarendoli. I Phōlarchós sono i sacerdoti di Apollo, in virtù dei quali è possibile la manifestazione del dio agli uomini.
Due anni dopo, nel 1960, vicino l’edificio nel quale poco tempo prima erano state trovate le iscrizioni con il nome Oulis, venne trovato un blocco di marmo che presentava tracce di un’epigrafe di ringraziamento, le cui parole incise erano: Ouliádēs, Iatromantis, Apollo.
La nuova scoperta era davvero la prova che attendevano, ma il frammento di marmo si rivelò fonte di imbarazzo, era qualcosa di cui parlare il meno possibile o piuttosto da dimenticare perché non trovava posto nella mappa delle nostre conoscenze.
Il senso è chiaro: l’epigrafe – insieme alle scoperte precedenti – era la testimonianza lampante che la grecità fosse altro rispetto quella che da tempo si credeva che fosse e le origini della cultura occidentale sembravano ormai svelare una forte impronta mistica. I tre termini sono naturalmente strettamente legati: Ouliádēs è “figlio di Apollo”, mentre Iatromantis indica il guaritore di cui abbiamo parlato, ossia che risana in virtù delle sue capacità profetiche.
Velia settembre 1962. Un’altra lastra di marmo: Parmeneides Pyretos Ouliádēs Physikós. È il frammento che tutti attendevano, quello che lega Parmenide ad Apollo, all’incubazione. La grafia corretta Parmeneide – e non Parmenide – era già ipotesi di studio, ma adesso veniva ad assumere una valenza di certo più pregnante. La novità assoluta è però quella di fare di Parmeneide un Ouliádēs, un sacerdote di Apollo, un phōlarchós, un custode del rifugio. E quello che più sconvolge è allo stesso tempo altro, ovvero sia l’attribuzione di Ouliádēs solo a Parmeneide, che la mancata datazione dell’iscrizione, con notevole differenza rispetto le lastre precedenti nelle quali i sacerdoti erano Oulis e datati “a partire da qualcosa”.
Secolo dopo secolo, i guaritori furono considerati suoi discendenti ed era in riferimento a lui che veniva data la linea di successione. Nel mondo antico era prassi usuale calcolare le date risalendo alla vita del fondatore di una stirpe o di una istituzione, a cui veniva riconosciuto il titolo di eroe e come tale era venerato dal momento della sua morte. […] il fondatore della filosofia occidentale [era] un sacerdote, soprattutto un sacerdote venerato come eroe. (1)
“Negli scavi di Velia sono venuti fuori, anni fa, alcune basi di busti e una statua completa; le iscrizioni di queste basi sono molte significative. Una porta il nome di Parmenide: dunque su quella base c’era il ritratto di Parmenide che è stato ritrovato. Parmenide che è presentato non come medico però, ma come physicos, come filosofo naturalista; poi ci sono tre medici, proprio qualificati come iatroi, medici, questi hanno anche un altro termine, physikos, che è un termine che sembra designi una funzione di carattere sacerdotale, di carattere sacrale. Si sono fatte molte ipotesi, ma la cosa importante è vedere questa connessione tra Parmenide e questo gruppo di medici.
La cosa interessante è che questi medici e anche Parmenide, su queste iscrizioni, su queste basi, sono designati come ouliadai, vale a dire appartenenti ad un ghenos, ad una gens che riconosceva come suo capostipite un Dio, una forma, un’ipostasi di Apollo, Apollo oulios.
Oulios significa il sanatore, il salvatore, il guaritore, e Apollo oulios è una divinità sanatrice nota in tutta l’Asia minore e anche a Kos, anzi proprio nella zona di Kos, dove sorgeva la scuola ippocratica, dove era nato Ippocrate, nello stesso demo (diciamo nella zona, l’isola di Kos era divisa in demoi) in cui era nato Ippocrate sono stati trovati i documenti di questo culto, che fu soppiantato dal culto di Asclepio.
Tale culto rappresenta quindi una tradizione pre-asclepica, anteriore all’affermazione di questa divinità della medicina che si impone poi in tutto il mondo greco. Siamo di fronte ad una tradizione medico-sacrale che ha le sue radici proprio nella Ionia e che evidentemente i focei hanno portato con sè.
Quest’aspetto di una scuola o meglio di uno sviluppo della scuola di Parmenide in senso medico, come scuola medica, avvicina di nuovo Parmenide e la scuola eleatica alla scuola pitagorica, che ha pure questo sviluppo. I problemi sono infiniti, perché proprio siamo in un’ area in cui le testimonianze sono esigue, sono frammentarie. Anche i dati riguardanti Parmenide sono frammentari: noi abbiamo dei versi, dei frammenti del poema di Parmenide trasmessi da altri autori, non abbiamo la continuità del testo.
Comunque tutti questi dati favoriscono naturalmente un gioco di ipotesi: si collegano tra loro attraverso ipotesi, attraverso collegamenti con altri dati altrettanto sporadici e frammentari. Nell’insieme vi è una certa coerenza, una certa unità che ridà valore a questa tradizione, perlomeno di un’influenza, di una presenza pitagorica nella formazione culturale di Parmenide.”
Giovanni Pugliese Carratelli. Tratto dall’intervista “Parmenide. La storia di Velia” – Roma, Musei Capitolini, martedì 12 aprile 1988 (2)
II. La “Via” di Parmenide secondo Peter Kingsley.
“La vera origine della filosofia occidentale, di molte idee che hanno forgiato il mondo in cui viviamo, si trova a Velia.”
Parmenide [di Velia, o Elea] era l’autore d’un solenne poema in esametri, di ispirazione divina, scritto per rivelare agli uomini il mondo degli dei e degli uomini e l’incontro tra gli uomini e gli dei. La prima parte del poema di Parmenide descrive il viaggio del filosofo fino all’incontro con una Dea, senza nome. La seconda parte descrive l’insegnamento della Dea a proposito della realtà. Mentre la terza parte contiene una descrizione di ciò che la Dea stessa definisce menzognero, il mondo in cui noi tutti crediamo di vivere.
Ogni figura incontrata da Parmenide è una donna o una ragazza, anche gli animali che compaiono nel racconto sono di genere femminile, e l’insegnamento è impartito da una Dea. Nota Kingsley: l’universo descritto da Parmenide è femminile; e se questo poema rappresenta il punto di partenza della logica occidentale, allora qualcosa di molto strano è accaduto alla logica, per come è andata a finire.
Il viaggio descritto è dunque un viaggio mitico, viaggio verso il divino con l’aiuto del divino. Non un viaggio qualsiasi. Ma il fatto che sia mitico non significa che non sia reale.
Il viaggio che Parmenide descrive, verso un’altra realtà, è un’esperienza compiuta, non un processo teorico. La sua esperienza di sacerdote di Apollo è un’esperienza pratica, non teorica. Dunque, antichi e moderni che abbiano letto l’insegnamento di Parmenide assumendo che fosse mera teoria e materia di argomentazione mancano di un dato essenziale alla comprensione di Parmenide: l’esistenza, migliaia di anni fa, di una “via” di Parmenide, o uno “stile di vita” Parmenideo. Di questa, possiamo prendere a testimonianza il racconto della morte di Zeno, primo discepolo e successore di Parmenide. Si dice che cadde prigioniero di alcuni abitanti di una zona dell’Italia meridionale, che intendevano difendersi dalla invasioni straniere, e che fu da essi trattenuto e torturato. Nonostante il dolore, Zeno seppe mantenere il silenzio e non tradì i suoi compagni di viaggio. Si dice che proprio nella sofferenza egli “testò le parole di Parmenide” trovandole “pure e vere come l’oro”.(3)
Kingsley vede nel poema di Parmenide la narrazione della discesa agli inferi, il “morire prima di morire”, come è detto dai grandi iniziati, un discendere desto nel regno dei morti, sulla scorta di Orfeo – tradizione che aveva il suo centro a Velia – esperienza che lo stesso Parmenide avrebbe compiuto. Il viaggiatore è accolto benevolmente dalla Dea che, anche per il fatto che non venga mai nominata, è da identificarsi con Persefone, che gli porge la mano destra.
Al mondo ultraterreno, il Tartaro, può giungere solo l’uomo che sa, l’iniziato ai misteri, colui che conosce ciò che chi rifugge dalla morte ignora.
A compiere il viaggio è il koûros, con cui di solito si intende “giovane, ragazzo, figlio” o comunque “persona al di sotto dei trent’anni”; ma la parola è molto antica ed originariamente designava una persona d’animo nobile, o, ancora, l’eroe. Il termine era anche utilizzato per indicare gli iniziati; ovvero il koûros è un uomo che si pone al confine tra il mondo umano e il mondo divino, ad ambedue ha accesso e in ambedue è riconosciuto e amato. Ma tale termine non indica solo tale tipo di uomo; indica anche un dio che sia immagine di un siffatto tipo umano, che personifichi divinamente l’eroe con la precisazione che «il più importante fra i koûrai divini era Apollo. Apollo era il koûros divino, il dio del koûros, il suo modello, la sua immagine e incarnazione universale». In questo contesto si fa importante la provenienza focea di Velia, giacché il culto di Apollo era diffuso nella zone costiere dell’Anatolia occidentale, dove appunto sorgeva Focea. E lì Apollo era venerato con l’appellativo di Oulios, che letteralmente vuol dire “esiziale, distruttivo, crudele”, ma che acquistò anche il significato di “colui che risana”; Apollo era dunque «il distruttore che risana e il guaritore che distrugge». (4)
L’incubazione.
Dai riti orfici e di Apollo deriva la pratica dell’incubazione, destinata non solo ai malati e a chi li doveva custodire, ma praticata anche da persone che tramite l’estasi raggiungevano un altro livello di consapevolezza ed erano capaci di profetare. La pratica era diffusa a Creta, a Samo (per cui anche Pitagora apparteneva al novero di questi uomini) e a Velia. Il nome che identificava questi profeti era “iatromante”, che significava appunto medico, guaritore e profeta. Iatromante era uno degli epiteti di Apollo. (4)
Il termine “incubazione” solitamente si riferisce alla possibilità di essere ricoverati in un luogo in cui si possa restare indisturbati. Può essere una stanza della casa o dentro un tempio, ma talvolta era una grotta o un altro luogo, considerato un punto di ingresso nel mondo sotterraneo. Era uso recarvisi non solo per favorire una guarigione, propria o altrui, ma era decisiva la possibilità di accedere da lì a un altro livello di coscienza, da cui poteva eventualmente provenire una guarigione, ma che era essenzialmente il contatto con un altro mondo, o un contatto con il divino, per ricevere istruzione direttamente dagli Dei.
Le antiche testimonianze sulla pratica dell’incubazione descrivono uno stato continuativo, in cui si accede indifferentemente dal sonno o dalla veglia, ad occhi aperti o chiusi. Altresì si dice che è come essere svegli, senza essere svegli, che è come il sonno, senza essere sonno. Né sonno né veglia, non lo stato di sogno, non lo stato di sonno senza sogni. Qualcosa di diverso, uno stato di consapevolezza di cui gli iatromanti erano maestri.
Molte testimonianze e pratiche associate alla iatromantica greca hanno un parallelo nelle tradizioni sciamaniche e nello Yoga. Non si tratta di una coincidenza. Ciò che rapidamente sarebbe scomparso o razionalizzato in Grecia, fu preservato e sviluppato in India. Quanto in Occidente rimase un elemento di mistero, riservato agli iniziati, fu oggetto di classificazione e di formalizzazione in Oriente. E lo stato di coscienza che i Greci videro o conobbero – quello che non si può definire sogno, né sonno, né veglia – ha ricevuto la propria definizione. A volte è stato indicato semplicemente come “quarto”, Turiya, poi divenuto più noto come Samadhi. Si è spesso creduto che semplicemente queste tradizioni non si radicarono mai in Occidente, o che se lo fecero furono di scarsa o nessuna importanza per la cultura occidentale. Ma non è così. Parmenide è l’esempio di un autore la cui poesia, ripetuta per secoli senza interrogarsi sui perché e sul metodo, è invece un esempio di conoscenza scaturita da questo tipo di esperienza.
Il suono del Silenzio.
In tutto il corso del viaggio di Parmenide non vi è descrizione che di un solo suono: quello che il carro produce quando le Figlie del Sole lo fanno partire: un suono sibilante. La parola usata da Parmenide è syrinx, il cui significato si può riferire a uno strumento musicale (siringa o flauto), o a una parte di alcuni strumenti che produce un suono particolare, un fischio, chiamato syrigmos. Ma per i greci, lo stesso termine che indicava il suono prodotto da un fischietto o da una siringa indicava anche il sibilo emesso dai serpenti. Le testimonianze greche della pratica dell’incubazione menzionano ripetutamente alcuni segni che demarcano il punto di ingresso nel mondo ultraterreno, o nello stato di coscienza al di là della veglia e del sonno. Uno dei segni è la percezione di un rapido movimento rotazione. Un altro è il suono di un fischio o di un sibilo. In India si descrivono esattamente gli stessi segni per indicare il preludio all’ingresso nel samadhi, stato che si pone appunto oltre la veglia e il sonno, e sono direttamente collegati al processo noto come risveglio della Kundalini: il “potere del serpente”, o l’energia della creazione, che giace in stato di latenza nell’essere umano. Quando incomincia il suo risveglio si avverte un suono sibilante. I paralleli tra le testimonianze note della tradizione indiana e il racconto di Parmenide sono sufficienti; molti studiosi indiani ne hanno scritto e discusso. Forse era sfuggito il particolare di questo suono menzionato da Parmenide, simile a quello del serpente. Il suono della syrinx era il richiamo al silenzio. E’ un dato riconosciuto anche a livello più elementare, che fischiare in direzione di qualcuno sia un modo per richiamarlo al silenzio. Per gli antichi mistici e per i maghi il viaggio verso una realtà superiore si compiva passando attraverso il silenzio. Dunque il suono del fischietto è l’ultima parola d’ordine, il suono del silenzio.
L’anelito
Lo si vede nelle persone il cui desiderio è riposto nel divino, o in Dio – coloro che vogliono qualcosa che per gli altri neppure esiste. Coloro che desiderano questo e quello corrono sempre il rischio che i loro desideri siano esauditi. Ma quando il desiderio è talmente più grande di noi, non c’è alcuna possibilità di essere soddisfatti. Allora accade qualcosa di veramente strano. Quando ci rifiutiamo di accontentarci di una cosa qualsiasi, l’oggetto del nostro ardente anelito verrà da noi.
Fin dall’inizio del poema Parmenide definisce cosa è necessario possedere per compiere questo viaggio – l’anelito o il desiderio. Se egli può raggiungere la sua meta è perché può giungere “fin dove il desiderio lo ha portato”. Non la volontà, non un particolare sforzo o una lotta: non c’è nulla che si debba fare. Il viaggiatore è semplicemente trasportato, direttamente al luogo dove deve andare. Ed è il suo desiderio a determinare quanto lontano possa avventurarsi.
Coscienza ed Esistenza
La Dea quindi istruisce il veggente spiegando che qualsiasi cosa esista – cioè sia oggetto di pensiero e percezione – è essere. Ma ancora altro deve essere compreso: che la causa iniziale del pensiero, ciò che lo mette in atto inizialmente, è l’essere. In altre parole ci viene illustrato che che l’oggetto del nostro pensiero e percezione, quale punto finale e obiettivo del processo del conoscere, è identico al punto di partenza. Inizio e fine sono identici, conoscenza e conosciuto.
Mêtis è la particolare qualità di intensificata consapevolezza, che spontaneamente diventa consapevole di tutto simultaneamente. Mentre la mente ordinaria si sposta nel suo incessante viaggiare, tale tipo di coscienza è invece sempre a casa, e la sua casa è ovunque. Mêtis sente, ascolta, vede, è consapevole allo stesso tempo di tutto ciò che attraversa il nostro orizzonte di coscienza. Nulla le sfugge. Quando diventiamo coscienti del veduto e dell’udito e delle varie impressioni provenienti dall’esterno, dopo un po’ non avvertiamo più le sensazioni visive e auditive separatamente, ma in un insieme unico. Cioè è qualcosa che è esattamente come è sempre stato, ma nel caso specifico è dotato di una perfetta continuità, in cui tutto è unito e non sussistono separazioni o divisioni. E in questa pienezza anche il passato e il futuro incominciano a mescolarsi, poiché non possono più essere separati. Entrambi sono inclusi nel presente. Anche il senso del movimento scompare. Mêtis è talmente rapida nella risposta, e perfettamente cosciente dell’attimo presente, che qualsiasi movimento sarà percepito come fermo. Ma, oltre ciò, invece di essere coscienti di una sedia, o un albero, si è coscienti della percezione di un solo essere: totale, immutabile, perfettamente immobile. Infine, osservando ancora, si scoprirà che invece di essere noi a percepire la realtà, di fatto, è la realtà che sta percependo se stessa attraverso di noi. In questo modo il cerchio si chiude.
Dal punto di vista della realtà, nulla è cambiato: e mai potrebbe. E dal punto di vista della strana irrealtà in cui ci muoviamo, anche, nulla è cambiato. Scendiamo le stesse scale, vediamo le stesse facce, dormiamo nello stesso letto. Eppure dal punto di vista dell’individuo che ha assistito alla manifestazione della Dea, la vicenda è molto differente. Poiché nulla è capace di cambiare un essere umano come l’esperienza di uno stato di immutabilità. Il futuro e il passato che erano stati cancellati vengono restituiti. Ma non sono più le realtà indipendenti che sembravano essere: sono invece inseparabili parti del presente. I nomi che abbiamo usato per riferirci a questo o a quello sono ancora perfettamente utilizzabili, se non fosse che invece che applicarsi a un dato numero di oggetti separati, si applicano a una cosa sola. Per chiunque altro la differenza potrebbe essere più sottile di un capello. Ma in senso proprio è pura magia. Improvvisamente, invece di vedere e udire migliaia di cose, ne vediamo o ascoltiamo una sola. E se si è desiderosi di dare a questa esperienza uno di quei nomi che i mortali hanno inventato: tutto è divino. (5)
Fonti:
(1) http://www.emiliosanfilippo.it/?page_id=305
(2) http://www.emsf.rai.it/aforismi/aforismi.asp?d=134
(3) http://www.sitosophia.org/recensioni/nei-luoghi-oscuri-della-saggezza-di-peter-kingsley/
(4) (5) Peter Kingsley: “In the Dark Places of Wisdom”, “Reality”
Altri articoli:
Elémire Zolla: Iniziati alle porte dell’Ade. L’esperienza sciamanica alle origini della spiritualità d’Occidente
http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/zolla/kingsley.htm
Roberto Baldini: L’estasi e l’enigma nel poema di Parmenide.
http://www2.unipr.it/~pieri/File%20PDF/L_estasiel_enigma.pdf
2 commenti
shanti
Grazie Beatrice
dopo aver letto questo post ho comprato il libro di Kingsley.
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