Hindu Dharma

Metafisica del Fuoco Sacro

di Pio Filippani Ronconi

Nel trattare la dimensione metafisica del Fuoco sacro presso le genti arie, ci siamo imposti di limitarci all’àmbito storicamente più antico e, perciò, a nostro avviso, più ricco di significati primordiali, cioè il periodo vedico, il cui retaggio ci è stato miracolosamente conservato dalla remota protostoria fino al giorno d’oggi, sia per la parte dottrinale, che per quella liturgica, ma soprattutto – grazie alla peculiare vocazione dell’ambiente indiano – per quanto riguarda l’interiorizzazione del rito e del mito, la realizzazione dell’elemento-agní nella coscienza visionaria del sacerdote. E penso che ricorrere all’ausilio della tradizione indiana e di quella – importantissima – iranica per recuperare le interiori fattezze del Fuoco sacro, sia particolarmente utile ai fini della ricostruzione vivente di quel Fuoco “occidentale” che tentiamo di ritrovare nella nostra Roma, onde rievocare la cosiddetta Pax Deorum passata all’invisibilità dai tempi di Graziano e Teodosio, quando la sacrilega volontà dell’Imperatore, convertita ai dèmoni peregrini, estinse la casta fiamma di Vesta che legava la sfera del tempo terreno storico e fattuale col il supramondo delle intenzioni archetipe, da cui Roma traeva ispirazione e vita.
Trattare del Fuoco vedico implica una cognizione sia pure sommaria del presumibile orientamento interiore, dello spirito come dell’anima, degli Arî indiani, che è lontanissimo dalla percezione attuale del mondo rappreso nella dimensione spazio-temporale come realtà a priori, a cui corrisponde – nell’interiorità del soggetto che se lo rappresenta – un pensiero astratto, praticamente morto, ed una coscienza logico-discorsiva; livelli, questi, di coscienza che nell’Occidente si sono sempre di più affermati, sin dal tempo della “morte degli Dei” di cui parla Plutarco da Cheronea, e sui quali si è strutturata tutta la scienza oggettiva e, quindi, l’organizzazione politica, economica e sociale quale si è andata affermando dal Rinascimento in poi. Indipendentemente dagli strati culturali, razziali, castali e genericamente religiosi, l’India conserva, con una grandissima varietà di applicazioni, una scienza interiore nascente da un’antichissima Sapienza continuamente rinnovellata dall’esperienza di infaticabili asceti, qual è – probabilmente negli ultimi quattro millennî – quell’insieme di discipline che conosciamo come Yoga.
Secondo queste discipline e non soltanto queste, l’uomo è assiato su quattro stati di coscienza: veglia, sogno, sonno profondo e catalessi (jagrâtâ, svapna, susupti, turîya), ad ognuno dei quali sperimenta se stesso, il mondo e la realtà del pensare secondo diverse prospettive. Allo stato di catalessi, il “quarto”, si sperimenta l’identità suprema di âtman e brahman, cioè di “se stesso” e “spirito universale”, in una condizione di vuoto (shûnya) assoluto, di stéresis: questa identità è materiata di volontà pura che si attua come calore primordiale, tapas. Allo stato di sonno profondo, il Verbo (vâc, shabda), si attua come un “io sono” cosmico rifrangendosi nelle 16 vocali creatrici, potenze di luci e di suono delle quali è sostanziato il Veda. Allo stato di sogno si attua la prima dicotomia fra parola-significato e oggetto: a questo livello, rispetto al quale sognamo, quando invece stimiamo di essere svegli, si attua nella parola-pensiero, il mantra, l’insieme delle potenze di vita, prâna, che reggono la compagine vivente dell’uomo, quella che, allo stato di veglia, si afferma come mondo fisico, sia soggettivo di corpo fisico, che oggettivo, di mondo materiale ad esso opposto. Ad ognuna di queste quattro condizioni corrisponde un livello diverso di coscienza, che dalla percezione di se stesso e del mondo nella specie fisico-materiale eminentemente separativa (“io-altro”) allo stato di veglia, perviene – nel “quarto stato” o di catalessi – alla suprema identità di io e universo, identità che negli altri stati di coscienza, specialmente in quello di veglia, è latente, immanente, altrimenti non potrebbe darsi alcuna forma di conoscenza, nemmeno quella grossolanamente materiale. Questo pensare cosmico, questa “gnosi”, prajñâ, che attraversa come una “aurea colonna”, hataka-stambha, le varie condizioni di coscienza, è intuita nei Veda, specialmente nel Rg-veda e nel Yajur-veda, come il Fuoco sacrificale che unisce il mondo degli uomini e quello degli Dei. A questo punto devo precisare un altro fatto molto importante, addirittura fondamentale per la comprensione anche del rito pagano. Gli Dei non sono l’“a priori” del mondo creato e, quindi, del sacrificio. E’ la volontà cosciente dell’ uomo che, attraverso il sacrificio, con la potenza del Verbo, il mantra (etimologicamente “pensamento”) da lui rettamente articolato, evoca e in un certo modo “crea” gli Dei. Ciò perché, prima che il tempo fluisse e il genere umano venisse manifestato, tutti i mondi, tutti gli esseri e le loro virtualità erano comprese nell’Uomo Universale, Prajâpati, dal cui auto-sacrificio venne ad essere l’Universo, ma che tuttora è presente ancorché latente nel cuore di ogni uomo, come purusa, individualità spirituale. Questo potere, questa volontà cosciente che suscita gli Dei, è dai Veda identificato a kavi-krátu, “il potere del vate, del veggente”, e jâtá-vedas, “colui che conosce le creature”, manifestazioni di Agní, il Fuoco sacro, che adesso descriveremo sommariamente.
Per l’Indiano vedico il fuoco sacrificale è, quindi, la “realtà presenziale” dell’uomo, quella per cui egli s’incarna nel mondo dello spazio e del tempo, senza smarrire però l’interiore dimensione spirituale. Nella struttura fisica dell’uomo, Agní è presente come tapas, il “calore” (cfr. latino tepeo, “sono caldo”), il calore apparentemente animale, che è, invece, manifestazione della “volontà di essere”, sia istintivamente come vivente, jîva, che spiritualmente come meditante, manîsina, secondo una volontà che “dal futuro si protende verso il presente” con quel movimento sintropico, “anti-naturale”, che permette alla vita di affermarsi nel mondo della parvenza continuamente morente, dominato dalla decadenza e corruzione biologica.
In un’opera purtroppo male conosciuta (I Veda, armonia, meditazione e realizzazione, Ubaldini ed., Roma 1976) Jeanine Miller identifica in Agní il principio immortale nell’uomo, mediatore tra terra e cielo (p. 183), ricordando come questo “potere insito e attivo negli Dei e potenziale negli uomini… innalza il mortale alla suprema immortalità” (RV I, 31, 7 amrtatve uttame martam). E ancora: “nato nel più alto dei cieli” (RV VII, 5, 7), mediatore tra il Cielo e la Terra, l’“ospite degli uomini” (athitim janânâm)… “che dimora in abitazioni terrene e nella terza sfera celeste”… “Egli che conosce la via degli Dei” (RV I, 72, 7) è “colui che conduce a quella dimora triplicemente celata, la misteriosa sede ove regna il Non-nato” (RV I, 164, 6)… custode dell’ambrosia (RV VI, 7, 7), dell’ámrta, conoscitore d’ogni sapienza” (vishvâni kâvyâni vidvân). Nel RV I, 31, 7 è riferito che Agní innalza l’immortalità potenziale celata nella materia e nell’uomo come luce divina alla grandezza della vera immortalità che regna pienamente nell’empireo supremo (amrtatve uttame). Mediante il tapas, che viene interiormente acceso, l’uomo procede verso la purificazione e, di là, verso l’estasi intuitiva. Gli uomini realizzano se stessi passando attraverso la fiamma di Agní che devono accendere nella triplice dimora (tri sadhaste): questa fiamma è la luce del sole, la “vasta luce” (uru jyotih), che gli rsi scoprirono mediante la meditazione (dîdhyânâh, RV VII, 90, 4): la percezione che ha come occhio il sole e consegue l’estasi intuitiva e l’omniscienza. Questa estasi irrobustita dall’ambrosia, o il soma, eleva la creatura umana allo stato divino.
Come appare evidente, il fuoco è concepito nei Veda come il tramite che unisce il mondo degli uomini a quello degli Dei, poiché egli trasporta in cielo l’oblazione (homa) offerta dagli uomini nell’atto sacrificale (karman, yajña), dal mondo visibile a quello invisibile. Ma questo atto può essere realmente compiuto da un sacrificatore qualificato, che abbia cioè animato il triplice potere meditativo, cioè: 1) la capacità di sperimentare interiormente (bhâvanâ) il mantra, cioè la risultante dei suoni contenuti nel verso vedico, di là dal significato empirico delle singole parole; 2) la capacità di concentrarsi sulla dimensione-luce del pensiero (il dhyâna, dalla radice dhî, vedere, meditare), sì da conseguire naturalmente l’estasi visionaria; 3) il pensare, matis, colto nella sua essenza, che nasce dal cuore come luce (hrdâ matim jyotir anu prajânan, III, 26, 8) e si manifesta come “canto splendente”, arka. In tale modo matis diventa manîsâ, l’“intuizione continua” la cui matrice mistica è la Verità (rtasya pade), da cui derivano tutti gli altri poteri che i meditanti (naro dhiyamdhâh) ritrovano avendoli modellati nel loro cuore (hrdâ yat tastan mantrân ashamsan, I, 67, 2).
Da queste brevi note appare evidente come la interpretazione material-naturalistica cara alla scienza delle religioni sia totalmente contraddetta dal contenuto oggettivo dei canti vedici, che, pur mantenendo la identificazione fisica del fenomeno-fuoco, lo considerano simbolo vivente di un’esperienza spirituale, alla quale si accede mediante un’illuminazione interiore, una specie di Yoga proto-indiano orientato secondo una direzione uranica e luminosa. In questa prospettiva, gli Dei sono contemporaneamente i fenomeni esteriori della Natura universa e gli impulsi spirituali interiori, che però si attuano secondo una conversione, una metánoia continua, che riconduce il fenomeno fisico al suo archetipo celeste. Nella prassi del sacrificio vedico vige l’ammonimento: “na ádevo devam arcayét”, “non chi non sia un dio veneri un dio!”, una allusione chiara al fatto che il sacrificante debba essersi assimilato, mediante l’estasi illuminativa, alla figura divina che intende evocare per proiettare secondo lo opus sacrificale (épas) che intenda compiere. Mancando lo spazio, il tempo e la ragione per cui dovremmo attardarci a studiare e descrivere i riti – quasi tutti – che hanno Agní, il Fuoco, come figura centrale, limitiamoci a citarne le principali funzioni e fattezze.
L’aspirazione costante degli Arî vedici di ricollegarsi al mondo celeste della Verità, Satyá, e dell’Ordine cosmico, Rtá, è esaudita mediante il sacrificio, yajñá, fondato sul culto del fuoco (agní, cfr. latino ignis), al quale viene libata l’offerta, lo homa. Al Fuoco, che col suo moto dal basso all’alto congiunge il mondo terreno a quello degli Dei, sono dedicati circa 200 inni vedici, nei quali, fra l’altro, viene simbolicamente descritto: la schiena unta di burro (ghrta, “l’Avvampante”), chioma di fiamma, barba scura, mandibola tagliente mediante la quale divora l’offerta, non per sé ma per gli Dei. Fra gli scarsi miti che lo caratterizzano, ve ne sono alcuni, relativi alla sua triplice nascita, che saranno oggetto di speculazioni mistiche e metafisiche: “dal Cielo una volta è nato come Agní (letteralmente “colui che promuove”, dalla radice ag, lat. agere); fra di noi una seconda volta come Jâtá-vedas (“Colui che conosce le cose nate”); una terza volta “fra le acque” (come folgore fra le nubi); lui, inestinguibile, risveglia attentamente il sacerdote, accendendolo” (RV X, 45, 1). Oltre alla sua triplice nascita, questa volta come Sole (Sûrya), folgore e fuoco terrestre, nato dal soffregamento delle due asticciole (araní), per cui è chiamato “figlio della violenza/forza” (sáhasah sunúh), Agní riveste funzioni pratiche e, allo stesso tempo, caratteri mistici rilevanti. Nel primo caso è detto “Signore di Casa” (grhá-pati), “ospite” (átithi) per eccellenza, “sacerdote domestico” (puró-hita), “invocatore” (hótar), “officiante” (adhvar-yú), termini questi che si riferiscono all’officio esercitato nella triplice oblazione sacrificale: 1) al fuoco domestico (gârha-patya) acceso in un focolare rotondo; 2) indi al “fuoco oblatorio” (âhavaniya) acceso a est in un focolare quadrato; 3) il “fuoco destro” o “meridionale” (dâksina) acceso a sud su un focolare a mezzaluna per scongiurare i cattivi influssi. Ma molto più importanti sono le sue funzioni come entità mistica assunta sub specie interioritatis. In quel caso abbiamo la figura, già allusa, del kaví-krátu, “la forza intelligente (kratu, cfr gr. krátos) del vate”, cioè la volontà illuminata dell’asceta che si esprime come tapas, spiritualizzazione del calore naturale del vivente. Il fuoco è anche concepito come il Figlio di Sette Madri, le quali sono i sette principî sui quali si fonda l’esistenza dell’uomo: anna, il cibo, cioè corpo fisico, prâna, il respiro, cioè l’energia vitale, manas, la mente, vijñâna, la coscienza discriminante, indi i tre principî spirituali che sono sat, cit, ânanda, cioè: essere, coscienza e beatitudine, la pienezza interiore alla quale corrisponde obiettivamente l’esperienza del trimundio bhûr-bhuvah-svar (terra, atmosfera, cielo), trasceso dai quattro principî cosmici: mahas, la vastità, jana, archetipo umano o la creatività, brhat, luce-parola vibrante, tapas, volontà cosciente. Come tale, Agní è celebrato nel Rg-veda (V, 3) come “Deva Supremo” e identificato successivamente ai due Dei della regalità, Mitrá e Váruna, al signore degli Dei Indra, indi al protettore della famiglia ârya, Aryamán, dato che in essi si riassumono tutte le potenzialità delle tre caste divine e umane, quella dei sovrani, quella dei guerrieri e legislatori e quella dei produttori di ricchezza, salute e vita.
Da quanto esposto risulta evidente come il Fuoco dalle molteplici valenze costituisca la “spina dorsale” dell’esperienza religiosa vedica, sia per quanto attiene al suo aspetto liturgico – ché, senza il fuoco, il rito sarebbe impossibile e il collegamento con la sfera celeste negato – e sia per quanto riguarda l’esperienza interiore del sacrificante che, attraverso la interiorizzazione del rito tende a conseguire quell’“estasi attiva” che i Misteri del nostro Mediterraneo qualificavano come epopteia, “visione ciclica del Reale”. Avuta questa visione – dicono espressamente i testi – il sacrificante già iniziato con l’investitura del cordone sacro, lo yajñôpavîta (corrispondente all’avyañjana, o kosti, iranico), sperimenta l’immortalità, lo ámrta, essendo stato introdotto, anima e corpo, nel mondo degli archetipi, di cui “Tutti-gli-Dei”, i Vishvedevâh, sono il simbolo attuale e vivente.
Millenni più tardi, oscuratasi la trasparente coscienza già propria agli Arî antichi, la Via verso il Cielo già indicata dai Trentatré Dei vedici resterà, bensì, retaggio degli Uomini, che ancora potranno percorrerla giovandosi di altri supporti, come lo Yoga, i Tantra e le Samhitâ, segnacoli di libertà nei tempi oscuri, almeno in India.
Epperò, “il ritorno del Fuoco Sacro in Occidente”, che a noi qui sta a cuore, potrà essere attuato, non solo quando le antiche tradizioni ancora viventi come quella vedica saranno ben conosciute, ma quando torneranno ad esserci uomini capaci di calcare la Via iniziatica che, secondo anche ciò che esplicitamente dicono i Veda, è fondata sul raccoglimento interiore, la concentrazione, la meditazione e, in genere, la smobilitazione degli psichismi, delle ossessioni mentali e della meccanizzazione della conoscenza. Ricordarsi occorre che la “tradizione” non patisce trascrizioni canoniche e dogmatizzazioni, ma richiede l’esperienza vivente, sempre rinfrescata, di chi voglia ritrovarla. In tale modo il Sacro tornerà ad essere la dimensione intelligibile del Reale, e la vita cesserà di essere una funzione animale, per tramutarsi in un arto di quella cosapevolezza, la samvid dell’antica Scienza spirituale degli Indi, che è il nocciolo della nostra presenza nel mondo: l’“Io- sono”.

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