Asana, o yoga, è quando stai vent’anni nella stessa posizione. Quando scorre attorno a te il tempo, le persone e le relazioni: vent’anni in cui la Madre ti pesta con due mani e i sensi si assottigliano di conseguenza. Se vuoi restare vent’anni sullo stesso cammino devi chiudere le porte dei sensi, relativizzare uomini e dei, il loro fugace favore, la loro crassa ostilità. Asana significa restare vent’anni nello stesso cammino, finché da cosa, luogo, fare diventa vuoto e una partecipe assenza di sé. Servire ciò che è dato di fare, semplicità. Perciò si dice che ognuno dei nove yogi rappresenta un’asana, uno stare per tutta la vita e oltre, uno stato dell’essere che prende quel nome e una forma tutto sommato stilizzata, appena abbozzata nella pietra. Non è una cosa difficile in sé, è solo resistere, stabili e immobili, senza pensiero e senza alternativa, senza quella reazione che muoverebbe la mente e il resto. Solo quando sono passati vent’anni puoi dire che è possibile. Perché da quella posizione hai visto trascorrere tutto il resto, i vivi e i morti e le ombre, e le onde del mare hanno inghiottito tutto, ritornando tutto a essere solo mare, solo onde che si sollevano inconsapevolmente per la loro natura cinetica e senza colpa e senza identità, senza inizio né fine. Non sei né uno né due con il mare, il mare compare e scompare con l’onda, non c’è alcun mare, come non c’è alcuna illusione.
Così abiti quarant’anni la stessa casa, dove all’inizio non piaceva a nessuno, in mezzo alla zona appena costruita della città, malfrequentata, troppo moderna. Nel frattempo crescono gli alberi nel giardino, diventano alti e possenti, e negli ultimi anni hanno parlato varie volte, agitati con sapienza dal vento, costruendo una comunità sensibile che gli uomini abitano in silenzio, quasi nascondendocisi in mezzo, guardinghi, sotto lo sguardo potente del pino e dell’abete, che ci sovrastano e segnano il tempo di questo abitato, la sua età che si stempera in verticale e nei toni del verde scuro, del blu che si fa grigio e sera. E gli uccelli hanno incominciato ad abitare i rami, lontano dai pericoli della caccia, sono arrivate le rondini a disegnare serpentine e sequenze di Fibonacci attorno ai rami, e poi le gazze grandi e innamorate, e i corvi, che riempiono l’aria di parole imbarazzanti e di pessimismo sagace, in direzione dei gatti e dei passanti, e quindi i merli, che un po’ alla volta, dopo quarant’anni entrano a fare il nido sul balcone di casa. Allora sai che un luogo non è più un quartiere e una casa, ma una parte del vasto mondo cosmico e naturale, a cui hai dato solo acqua alle piante e qualche passaggio musicale e ti ha restituito il creato, che si riversa nel luogo che ritorna mondo e grembo e natura.
Allora qualcuno ieri mi mostra una foto, di una casa in riva al mare, che esisteva cento anni fa. Su quella spiaggia io ci sono nata e ho trascorso ogni estate da quando sono in questo incerto corpo. Ma lì è mare e casa insieme, e le rovine di quella casa scomparsa le rivedo trasparire sott’acqua, quando ero bambina. Un misterioso pavimento, coronato da basse file di mattoni in cui si inciampava con la bassa marea e se era il tramonto rifletteva il rosa del cielo con il rossastro dei mattoni levigati dalle onde e invece che lamentarti per il male di averci sbattuto, era la visione di un mondo sommerso, come l’Ade che talvolta emergeva a pelo d’acqua a richiamare qualcosa che la superficie a volte poteva nascondere e a volte rivelare, per incanto. E dopo cinquant’anni la città sempre straniera, sempre aspra e obliqua per sua misteriosa natura, diventa una sequenza di luoghi onirici e simbolici segreti. La signora Iride Magi, che ci teneva in braccio da bambini nel suo stabilimento dagli ombrelloni sgargianti, che diceva di essere nata proprio nella casa che già era sommersa da decenni sotto il mare; e quale altro nome potrebbe tradurre Persefone, avvolta nei suoi comodi e lindi grembiuli a fiori. Sai che questa città ti ha tenuto in braccio nel nome della dea del mondo sotterraneo, sommerso dal mare. E siamo silenziosi e schivi, nati attorno al perimetro di quella misteriosa casa di Ade, che si poteva intravedere raramente emergere al tramonto, sotto la superficie dell’acqua.
Altre immagini si infilano come perle sul filo. Cerco l’angelo sterminatore, maestra della mia maestra di musica, ritratta in una foto degli anni ’30, con abito lungo di seta lucida, appoggiata alla sua arpa, i capelli biondi i lineamenti perfetti. Sembrava un angelo, ci ammoniva la prof. M. nei suoi deliri di onnipotenza, mentre faceva ogni possibile cattiveria per farci piangere e mortificarci: ma era una furia! Non c’è la sua foto, dell’angelo biondo sterminatore, che aveva insegnato a discriminare le studentesse il cui aspetto non corrispondeva a quell’ideale ariano, ma ci sono le sale e gli scaloni che attraversavo al mattino prestissimo, quando arrivavo a scuola mezz’ora prima per fare colazione al bar del teatro neoclassico e perdermi nella penombra umida e fredda delle scale e delle sale ancora vuote, dove il mio inconscio ha ambientato sogni e libri, come uno scenario metafisico. L’angelo sterminatore è scomparso, inghiottito dal mare-tempo che ha sublimato ogni cosa in coscienza e immagine archetipo e funzione pura.
Restare è trasformare. Un luogo, questo mondo che è sempre regno ostile degli arconti e dei demoni della soglia, si fa coscienza e presenza, sapienza sottile di ciò che abita sotto la superficie dell’esperienza, come le immagini perenni, che abitano sotto la superficie del mare, hanno indicato. Quando questo mondo diventa sogno, diventa reale.