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Ramakrishna e la Visione di Kali. L’Estasi divina.

LA PRIMA VISIONE DI KALI

[…] E, in effetti, ben presto scoprì che strana Dea aveva scelto di servire. A poco a poco divenne sempre più avvinto nella rete della sua presenza cosmica. Se per l’ignorante Ella è l’immagine della distruzione,(Ramakrishna) in lei trovò la benevola, amorevole Madre. Il Suo collo è ornato da una ghirlanda di teste, i suoi fianchi da una cintura di braccia umane, le Sue mani reggono armi mortali, i suoi occhi lanciano fiamme,  ma Ramakrishna sentiva nel Suo respiro il  confortante tocco di un tenero amore, e vide in lei il seme dell’immortalità. (Kali) Si innalza sul petto del suo consorte, Siva, perché Lei è Shakti, la Potenza inseparabile dall’Assoluto. E’ circondata da sciacalli e altre creature abiette, gli abitanti dei campi di cremazione. Ma non è la Realtà Ultima superiore alla santità e all’empietà? La Dea sembra ubriaca, sotto l’effetto del vino. Ma chi avrebbe creato questo mondo pazzo se non sotto l’influenza di una ebbrezza divina ? E’ il simbolo più alto di tutte le forze della natura, la sintesi delle loro antinomie, l’ultima Divinità, in forma di donna. Lei divenne per Sri Ramakrishna l’unica Realtà, e il mondo divenne un’ombra inconsistente. Al suo culto dedicò la sua anima. Davanti a lui fu il portale trasparente dell’ineffabile realtà.

Il culto nel tempio intensificava il desiderio di Sri Ramakrishna di una visione vivente della Madre dell’Universo. Cominciò a passare in meditazione il tempo non  impiegato nel servizio del tempio, e per questo scopo scelse un luogo estremamente solitario. Una giungla profonda, fitta di sottobosco e piante spinose, che si trovava a nord dei tempio. Usato un tempo come luogo di sepoltura, era evitato dalle persone anche durante il giorno per paura dei fantasmi. Qui Sri Ramakrishna incominciò a passare tutta la notte in meditazione, tornando nella sua stanza solo la mattina con gli occhi gonfi, come chi ha molto pianto. Durante la meditazione, deponeva la sua veste e il suo cordone da brahmino. Per spiegare questo strano comportamento, disse una volta a Hriday : “Non sai che quando si pensa di Dio ci si dovrebbe liberare da tutti i legami? Dalla nostra stessa nascita abbiamo le otto catene, odio, vergogna, lignaggio, orgoglio per la buona condotta, paura, evitamento, superbia, dolore. Il filo sacro mi ricorda che io sono un bramino e quindi superiore a tutti. Quando si chiama la Madre si devono abbandonare tutte queste idee”. Hriday pensò che suo zio stava diventando pazzo.

Come il suo amore per Dio si faceva più profondo, incominciò a dimenticare o a trascurare le formalità del culto. Seduto davanti all’immagine, passava ore a cantare i versi dei grandi devoti della Madre, come Kamalakanta e Ramprasad. Quelle canzoni rapsodiche, che descrivono la visione diretta di Dio, intensificavano il desiderio che Sri Ramakrishna già viveva. Sentiva dentro di sé la disperazione di un bambino separato dalla madre. A volte, in agonia, gettava il viso a terra e piangeva con tale amarezza che la gente, pensando che avesse perso la madre terrena, gli porgeva le condoglianze. A volte, nei momenti di scetticismo, gridava: “Sei vera, Madre, o è tutta una finzione – pura poesia senza alcuna realtà? E se tu esisti, perché non ti vedo? O è la religione una mera fantasia e tu sei solo il frutto dell’immaginazione dell’uomo?” A volte si sedeva sul tappeto da preghiera per ore, fermo come un oggetto inerte. Iniziava a comportarsi in modo anomalo, il più delle volte inconsapevole del mondo. Quasi abbandonò il cibo e il sonno lo lasciò del tutto.

Ma non dovette aspettare a lungo. Così descriveva la sua prima visione della Madre: “Sentivo come se il mio cuore fosse stato strizzato, come un asciugamano bagnato, ero sopraffatto dall’inquietudine e dal timore che la realizzazione di Lei, potesse non essermi accordata in questa vita. Non potevo sopportare di più la separazione da Lei. La vita sembrava non essere degna di essere vissuta. Improvvisamente il mio sguardo cadde su una sciabola che era conservata nel tempio della Madre. Decisi di porre fine alla mia vita. E dunque balzai su, come un pazzo, e l’afferrai, quando improvvisamente la Madre benedetta mi rivelò se stessa. Gli edifici, il tempio, e tutto il resto sparì dalla mia vista, senza lasciare traccia alcuna, al loro posto vidi un illimitato, infinito, radioso Oceano di Coscienza. Ovunque guardavo, flutti scintillanti si stavano riversando verso di me da ogni lato, con un rumore terrificante, fino a sommergermi! Stavo ansimando, preso dall’ansia, e crollai, incosciente. Cosa stava accadendo nel mondo esterno non lo sapevo, ma dentro di me c’era un flusso costante di beatitudine pura, tutto nuovo, e sentivo la presenza della Madre Divina”. Sulle sue labbra quando riprese conoscenza del mondo c’era solo la parola “Madre”.

Ramakrishna Kali poster
L’ESTASIA DIVINA

Ma questo fu solo un assaggio delle esperienze intense che seguirono. Il primo contatto con la Divina Madre lo rese più ansioso di conservare una visione di Lei ininterrotta. Voleva continuare a vederla, sia in meditazione che ad occhi aperti. Ma la Madre prese a giocare a nascondino con lui, intensificando la sua gioia e la sua sofferenza. Piangendo amaramente per ogni separazione da lei, scivolava poi in trance e La vedeva in piedi davanti a lui, sorridente, che gli si rivolgeva consolante, di buon umore, pronta a istruirlo. Durante questo periodo di pratica spirituale ebbe molte esperienze non comuni. Quando si sedeva a meditare, sentiva strani ticchettii provenire dalle articolazioni delle gambe, come se qualcuno le stesse bloccando, una dopo l’altra, per tenerlo fermo, e al termine della meditazione sentiva di nuovo gli stessi suoni, questa volta al fine di sbloccarlo, lasciandolo libero di muoversi. Vedeva lampi, come uno sciame di lucciole che aleggiava davanti ai suoi occhi, o un mare di profonda nebbia che lo circondava, attraversato da onde luminose di argento liquido. Oppure, da un mare di nebbia luminosa contemplava la Madre emergere, prima i suoi piedi poi la sua vita, il corpo, il viso e la testa, infine, la sua intera persona, di cui poteva sentire il fiato e la voce. Durante la preghiera nel tempio, a volte si esaltava, a volte restava immobile come la pietra, a volte quasi collassava dall’emozione. Molte delle sue azioni, contrarie alla tradizione, sembravano sacrileghe agli occhi della gente. Prendeva un fiore e lo portava prima sulla propria testa, addosso e ai piedi, per poi offrirlo alla Dea. Oppure, come un ubriaco, annaspava verso il trono della Madre, le accarezzava il mento ed esprimeva il suo affetto per lei, e quindi cantava, parlava, scherzava, rideva e ballava. Oppure prendeva un boccone di cibo dal piatto e lo porgeva alla Sua bocca, pregandola di mangiare, e non era soddisfatto finché non era convinto che lei ne avesse davvero mangiato. Dopo che la Madre era stata richiusa per la notte, Egli, dalla sua stanza, la sentiva muoversi e salire al piano superiore del tempio con i passi leggeri di una ragazza felice, e udiva le sue cavigliere tintinnanti. Poi la scorgeva in pedi, con capelli fluenti. La sua figura nera si staglia contro il cielo della notte, guardando il Gange o le luci lontane di Calcutta.

Naturalmente i funzionari del tempio lo presero per pazzo. I suoi benefattori mondani lo portarono da medici esperti, ma nessuna medicina poteva curare la sua malattia. Più di una volta lui stesso mise in dubbio la sua sanità mentale. Poiché aveva navigato attraverso un mare inesplorato, senza una guida terrena che lo dirigesse. Il suo unico rifugio certo era la Madre Divina stessa. A Lei pregava: “Non conosco queste cose, io sono all’oscuro dei mantra e ignoro le Scritture, solo Tu puoi insegnarmi, Madre, come realizzare Te! Chi altro mi può aiutare se non Tu, che sei mio unico rifugio e guida?” E la presenza sostenitrice della Madre mai lo lasciava solo nell’angoscia o nel dubbio. Anche coloro che criticavano la sua condotta furono colpiti da tanta purezza, ingenuità, veridicità, integrità e santità. Tutti percepivano un’influenza edificante in sua presenza.

Si dice che il samadhi, o trance, non è altro che la porta d’ingresso del regno spirituale. Sri Ramakrishna sentì un desiderio incontenibile di godere di Dio pienamente. Per la sua meditazione costruì un posto nella zona settentrionale e boscosa del giardino del tempio. Con l’aiuto di Hriday piantò lì cinque alberi sacri. Il luogo, conosciuto come il Panchavati, divenne teatro di molte delle sue visioni.

Man mano che il suo stato spirituale si accresceva, più si sentiva di essere un figlio della Madre Divina. Egli risolse di arrendersi completamente alla Sua volontà e di lasciarsi da Lei dirigere.

“O Madre”, egli pregava: “ho preso rifugio in Te. Insegnami cosa fare e cosa dire. La Tua volontà è sovrana su ogni cosa, ed è per il bene dei tuoi figli. Unisci la mia volontà alla Tua volontà e fai di me il Tuo strumento”.

Le sue visioni divennero più profonde e più intime. Non aveva più bisogno di meditare per contemplare la Madre Divina. Anche mantenendo coscienza del mondo esterno, La vedeva tangibile come i templi, gli alberi, il fiume, e gli uomini intorno a lui.

In una certa occasione Mathur Babu entrò furtivamente nel tempio per assistere alla devozione. Poichè era profondamente commosso dalla devozione del giovane sacerdote e dalla sua sincerità. Si rese conto che Sri Ramakrishna aveva trasformato l’immagine di pietra nella Dea vivente.

Sri Ramakrishna un giorno nutrì un gatto con il cibo che doveva essere offerto a Kali. Questo era davvero troppo per il direttore del giardino del tempio, che si considerava responsabile del corretto svolgimento del culto. Segnalò il comportamento folle di Sri Ramakrishna a Mathur Babu.

Sri Ramakrishna descrisse poi l’incidente : “La Madre Divina mi rivelò, nel tempio, che lei diventava tutto quello che vedevo, che tutto era pieno di Coscienza. L’immagine era Coscienza, l’altare era Coscienza, i recipienti erano Coscienza, la porta era Coscienza, il pavimento di marmo era Coscienza – tutto era Coscienza. Realizzai che tutto dentro la stanza era intriso, per così dire, di Beatitudine – Beatitudine di Dio. Vidi un uomo malvagio di fronte al tempio di Kali, ma anche in lui riconobbi il potere della Divina Madre. Ecco perché ho dato da mangiare a un gatto il cibo che doveva essere offerto alla Madre Divina. Ho chiaramente percepito che tutto questo era la Madre Divina: anche il gatto. Il direttore del giardino del tempio scrisse a Mathur Babu dicendo che stavo dando da mangiare al gatto le offerte destinate alla Divina Madre. Ma Mathur Babu aveva capito lo stato della mia mente e scrisse al direttore: “Lascialo fare quello che vuole. A lui non devi rimproverare niente. ”

Sri Ramakrishna soffriva in questo momento di un disturbo doloroso, una sensazione di bruciore sul corpo, da cui guarì con una strana visione. Durante il culto nel tempio, seguendo le ingiunzioni scritturali, visualizzò la presenza del “peccatore” in se stesso e la distruzione di questo “peccatore”. Un giorno stava meditando nel Panchavati, quando vide uscire da sé un uomo dagli occhi rossi, di carnagione nera, barcollante come un ubriaco. Presto emerse da lui un’altra persona, dal volto sereno, che indossava il panno ocra di un sannyasi e portava in mano un tridente. La seconda persona attaccò la prima e la uccise con il tridente. Dopo di questa visione, Sri Ramakrishna era guarito dal dolore.

In questo periodo cominciò ad adorare Dio assumendo l’atteggiamento di un servo verso il suo padrone. Imitava lo stato d’animo di Hanuman, il Re scimmia del Ramayana, il servitore devoto di Rama e il modello tradizionale di questa forma di devozione. Quando meditava Hanuman, i suoi movimenti e il suo stile di vita cominciavano a somigliare a quelli di una scimmia. I suoi occhi si facevano inquieti. Viveva cibandosi di frutti e radici. Con l’abito legato intorno alla vita, e una parte di esso appeso a forma di coda, saltava da un posto all’altro, invece di camminare. E dopo un breve periodo fu infine benedetto dalla visione di Sita, la divina consorte di Rama, che entrò nel suo corpo e lì scomparve con le parole: “Vi lascio il mio sorriso.”

Mathur aveva fede nella sincerità dello zelo spirituale di Sri Ramakrishna, ma cominciava a dubitare della sua sanità mentale. L’aveva visto saltare come una scimmia. Un giorno, quando Rani Rasmani stava ascoltando il canto di Sri Ramakrishna nel tempio, il giovane sacerdote di colpo si voltò e la schiaffeggiò. Se apparentemente stava ascoltando il canto dell’inno, ella stava effettivamente pensando a questioni politiche. Accettò la punizione come se la Madre Divina stessa l’avesse decisa, ma Mathur era angosciato. Egli pregò Sri Ramakrishna di tenere i suoi sentimenti sotto controllo e di rispettare le convenzioni della società. Dio stesso, gli diceva, segue le leggi. Dio non ha mai permesso, per esempio, ai fiori di due colori di crescere sullo stesso stelo. Il giorno seguente Sri Ramakrishna si presentò da Mathur Babu con due fiori di ibisco che crescevano sullo stesso stelo, uno rosso e uno bianco.

Mathur e Rani Rasmani cominciarono ad attribuire il disturbo mentale di Sri Ramakrishna, in parte, almeno, alla sua osservanza della più rigorosa castità. Pensando che una vita più naturale sarebbe stata utile a rilassare la tensione dei suoi nervi, si accordarono con due donne di malaffare. Ma non appena le donne entrarono nella sua stanza, Sri Ramakrishna vide in esse la manifestazione della Divina Madre dell’Universo ed entrò in samadhi pronunciando il Suo nome.

Da : The Gospel of Sri Ramakrishna By Swami Nikhilananda

Traduzione di Beatrice Udai Nath Polidori

 

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